sabato 13 ottobre 2012
AMedesano, piccolo paese in provincia di Parma, c'è una scuola di formazione all'impegno politico, sostenuta dall'Azione Cattolica. Forse bisogna riprendere da qui la ricerca di uomini di fede che vogliano dedicare parte del proprio tempo alla vita pubblica. In quanto cristiani non possiamo essere assenti, non avere opinioni o semplicemente usare solo la critica senza impegno nell'azione. È questo certamente un momento di maggiore riflessione e dovrebbe essere anche di preparazione a un ruolo che negli ultimi decenni si è appannato, dimentico della propria gloriosa storia di fronte all'attivismo di altre forze. Nella bozza di questo programma si riconosce che la maggior parte dei giovani, anche quelli che frequentano l'Azione Cattolica, sono lontani dalla politica e dalla possibilità di un impegno diretto. Pensare quindi a una scuola significa prima di tutto ricostruire le basi storiche della presenza dei cattolici nei primi anni del dopoguerra quando, di fronte alla distruzione materiale e morale di un popolo, seppero prendere in mano la vita del nostro Paese. Non è facile chiedere oggi attenzione e studio su questo argomenti quando sotto gli occhi abbiamo una società politica così compromessa. Come sarà difficile domani portare i giovani a votare! Queste scuole di formazione che ogni tanto nascono in piccoli centri, sono utili per riprendere in mano una cultura della politica, una passione per il bene comune e sono meritevoli di attenzione e di aiuto. Molto è richiesto anche alle testimonianze dirette di un altro tempo, ma pochi sono rimasti ancora tra noi che possano portare un apporto vissuto. È questa la ragione per cui sono stata invitata a parlare al gruppo di formazione di Medesano della personalità di mio padre «Come uomo, come cristiano, come politico». Ho lasciato che rispondesse lui stesso attraverso i fatti e gli scritti familiari dove è impossibile dividere i tre momenti richiesti perché l'uomo, il politico e il cristiano erano una cosa sola. Basterebbe rileggere alcune righe di una lettera scritta a Francesca dalla prigione, dove era stato condannato dal fascismo, quando qualcuno diceva che questa pena se l'era meritata per aver difeso la libertà del Parlamento con troppa decisione. Allora egli scrive: «... era la mia coscienza che me lo imponeva, le mie convinzioni, la dignità, il rispetto della mia vita. Ci sono molti che nella politica fanno solo una piccola escursione, come dilettanti, per me fin da ragazzo, era la mia carriera o meglio la mia missione. Non importava dimettere il mandato parlamentare, abbandonare il giornale, imporre il silenzio alle labbra e la clausura ai piedi... ma forse io non restavo io? Per mutare avrei dovuto rinnegare me stesso. Io ti ho sempre letto negli occhi che se fossi stato vile mi avresti disprezzato... Il cammino verso il progresso sarà ripreso quando avremo incominciato a capire che la violenza non è forza, ma ostacolo e che la forza è giustizia, verità, libertà, dolcezza e pace».
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