giovedì 1 febbraio 2018
Ripetizione e sorpresa: l'equilibrio fra i elementi è indispensabile per ottenere l'effetto comico. Un equilibrio magari precario, più spesso addirittura apparente, che ci permette di prevedere che cosa accadrà fra un istante, ma non ci impedisce di lasciarci stupire dal modo in cui la previsione si realizza. Che quei due stiano sbagliando tutto nel trasportare l'enorme imballaggio su per la scalinata, per esempio, è evidente fin dall'inizio. Eppure in quante meravigliose maniere i facchini improvvisati riescono a risultare maldestri, con quanta abilità e con quanta immeritata fortuna scampano puntualmente al disastro, pur scambiandosi in continuazione critiche e rimbrotti.
Tra comico e tragico, del resto, il confine è sottilissimo e a volte, per varcarlo, basta variare la prospettiva. Partendo dalla medesima situazione (un pendio, un peso insostenibile, la missione disperata di portare il peso in cima al pendio) si può scrivere un saggio appassionato sulla condizione umana oppure mettere in scena la gag perfetta. Si può fare come Albert Camus, dunque, che nel 1942 pubblica Il mito di Sisifo, oppure come Stan Laurel e Oliver Hardy – meglio conosciuti in Italia come Stanlio e Ollio – che nel 1932 interpretano il cortometraggio La scala musicale, The Music Box nell'originale. Dentro la scatola (box) che va trascinata su per la scala c'è un pianoforte, infatti, e questo è un dettaglio che si fa sentire, in tutti i sensi.
La cronologia è importante. Il comico arriva prima del tragico e, in un certo senso, lo contiene. Quando Camus inviterà il lettore a soffermarsi sul volto dell'eroe sconfitto che discende a sua volta verso il basso per riprendere la sua inutile impresa («Un volto che patisce tanto vicino alla pietra – annota lo scrittore – è già pietra esso stesso»), lo spettatore della Scala musicale non può non ricordare la corsa, come al solito goffa e irresistibile, di Stanlio e Ollio giù per i gradini di cemento, dietro al pianoforte che potrebbe sfasciarsi da un momento all'altro e allora sì che sarebbe «un altro bel pasticcio». Another Fine Mess, del 1930, sempre con il fidato Parrott alla regia, è probabilmente il film che meglio di ogni altro riassume lo spirito di questo duo comico dimostratosi capace di passare con disinvoltura dalle pantomime del cinema muto alle schermaglie verbali consentite dall'avvento del sonoro (ricordate il surreale stupìdo del doppiaggio italiano?). In quella vicenda di travestimenti e scambi di persona il finto furbo e il vero sciocco danno il meglio di sé, fedeli a una tradizione che affonda le radici nel folklore e nella commedia dell'arte: Ollio che cerca di darsi un contegno, Stanlio che gli scombina sempre i piani. Il clown bianco e l'augusto, ma in cravatta e bombetta, senza un filo di trucco. Persone molto simili noi o forse noi stessi così come appariamo agli occhi di chi ci osserva.
La scala musicale è qualcosa di diverso. È il comico allo stato puro, metafisico e astratto. Per via della parentela dei due malcapitati con Sisifo, certo, ma anche per la condivisa solitudine in cui tutto accade. Altri personaggi passano e se ne vanno, ma la loro presenza non fa che rafforzare, anche solo per un istante, l'equilibrio decisivo fra ripetizione e sorpresa. Proprio quando sembra che Stanlio e Ollio ce l'abbiano finalmente fatta, ecco che il pianoforte se ne va un'altra volta per conto suo. Noi che guardiamo ce ne accorgiamo con un attimo di anticipo rispetto agli attori ed è questa illusione di saperne di più che ci fa arrivare tanto impreparati al colpo di scena finale. Sisifo riuscirà anche a spingere il masso fino alla vetta della montagna, ma anche quel suo successo potrebbe essere uno sbaglio. Dopo di che, sta a noi decidere se ridere o piangere.
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