mercoledì 25 maggio 2011
«Stavano seduti in salotto, lei in una poltrona dalla spalliera altissima e a forma di conchiglia, lui in una poltrona di dimensioni più modeste e dalla spalliera a pètalo di rosa. Le altre poltrone intorno, rigide e composte nei camici estivi, sembravano membri del Ku-klux-klan in riunione segreta. Due alti rettangoli scuri, incorniciati d'oro e appesi alla parete, davano modo a Lodovico di argomentare in uno il padre di lei, che nella penombra delle persiane accostate lasciava intravedere un poco della sua faccia di vecchio cane, nell'altro la madre di lei che lasciava intravedere un poco della sua faccia di vecchia capra». Questo è Alberto Savinio, il miglior Savinio, e quella trascritta è una descrizione o un quadro di Savinio, uno di quelli che alcuni (quorum ego) ritengono migliori dei quadri di suo fratello, Giorgio De Chirico.
Stiamo ragionando di Tutta la vita, la raccolta di racconti edita da Bompiani nel 1946, e che ora Adelphi ripropone nella collezione di «tutte le opere» di Alberto Savinio (pp. 244, euro 12).
Surrealismo? Più no che sì, come spiega Savinio stesso nella prefazione. André Breton, nel 1937, aveva scritto che alle origini del surrealismo c'erano appunto Savinio e De Chirico, e Savinio non contesta «le affermazioni dello stesso capo del surrealismo e teorico riconosciuto», ma precisa: «Il surrealismo per quanto io vedo e per quanto so, è la rappresentazione dell'informe ossia di quello che ancora non ha preso forma, è l'espressione dell'incosciente ossia di quello che la coscienza non ha ancora organizzato. Quanto a un surrealismo mio, se di surrealismo è il caso di parlare, è esattamente il contrario di quello che abbiamo detto, perché il surrealismo, come molti miei scritti e molte mie pitture stanno a testimoniare, non si contenta di rappresentare l'informe e di esprimere l'incosciente, ma vuole dare forma all'informe e coscienza all'incosciente». È chiaro?
La catacresi è la figura retorica che attribuisce alle cose inanimate proprietà e sensazioni umane («il collo di bottiglia», «la gamba del tavolo»). Ebbene, la scrittura e la pittura di Savinio, morto a sessant'anni nel 1952, sono animazioni di catacresi, per cui non c'è da stupirsi che una poltrona sia venerata come la mamma che le si sedeva sopra e con la quale ha finito per identificarsi, né che i mobili bisbiglino storie sconvenienti di cui sono stati testimoni e che il neovedovo proprietario non avrebbe mai dovuto sapere, e nemmeno che un pianoforte femmina partorisca tutta una serie di vispi pianofortini, e neppure che i vestiti scacciati dall'armadio perdano i loro colori, sbiancati dalla paura.
Il tema dominante è la contiguità della morte con la vita, ma senza tragedie, senza elucubrazioni: Savinio trasforma la riflessione in letteratura, pigiando il pedale di un'ironia che sdrammatizza e riequilibra nei finali la bilancia del bene e del male.
Per chi volesse sapere a che cosa si riferiva la scena d'apertura, diciamo che si tratta dell'arrivo di Leopoldo in casa della ricca e zoppa fidanzata del commilitone defunto, al quale lo sfacciato sfaccendato vorrebbe subentrare, salvo finire in manette per non aver saputo condurre l'artificio fino in fondo, sdrucciolando proprio sul nome della fidanzata che sul più bello non riesce a ricordare.
Quello del nome è un altro assillo di Savinio, il nome che determina la personalità di chi lo porta, gabbia in cui ci si può trovare rinchiusi per la leggerezza di genitori incoscienti.
Il libro è interessante anche per la temperie in cui fu scritto: negli ultimi anni di guerra, con gravi ristrettezze non solo di carta da stampa, ma anche di vitto, al punto che " come informa Paola Italia nell'esauriente Nota al testo " l'editore Bompiani il 3 febbraio 1944, inviò un pacco alimentare a Savinio che gli scrisse: «Ti ringrazio, anzi ti ringraziamo tutti di cuore. Questo si chiama davvero nutrire i propri autori».
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