venerdì 1 novembre 2002
Una sera eravamo una trentina di dervisci e non avevamo che una sola pagnotta. La facemmo a pezzetti, poi spegnemmo la lampada; così, se qualcuno avesse mangiato più pane dell'altro, non avrebbe dovuto vergognarsi. Dopo un po' di tempo, la lampada fu riaccesa. Ed ecco, tutti i pezzetti di pane erano ancora lì, perché ciascuno aveva rinunciato a mangiare a favore degli altri. Come ci sono i "santi pagani" anche nella Bibbia (pensiamo a Enok, a Noè, a Giobbe, che non sono ebrei e quindi non appartengono al popolo dell'elezione, eppure sono esaltati dalla Scrittura), così ci sono i "santi musulmani", come questo gruppo di dervisci, ossia di membri di una confraternita spirituale. Il racconto arabo esalta soprattutto una qualità che anche il cristianesimo pone alla base dell'autentica santità, cioè l'amore puro, totale, assoluto e libero. Non per nulla Gesù, quando dipinge - in una pagina mirabile del Vangelo di Matteo (25, 31-46) - il giudizio finale pone come discriminante decisiva della salvezza e della condanna proprio quello che si sarà fatto «a uno solo di questi fratelli più piccoli», cioè l'atto di amore per affamati, assetati, stranieri, miseri, malati e carcerati. Oggi nell'«immensa moltitudine dei giusti di ogni nazione, razza, popolo e lingua» descritta dall'Apocalisse (7, 9) intravediamo un tratto a tutti comune, quello della carità che «copre una moltitudine di peccati» e conduce alla luce della gloria divina. Giovanni Pascoli nei suoi Nuovi Poemetti scriveva: «Chi prega è santo, ma chi fa, è più santo». Tuttavia, senza la grazia divina che si irradia dalla preghiera, l'azione si sterilisce e corre il rischio di essere solo un'impresa che glorifica se stessi.
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