giovedì 11 luglio 2019

Sto vegliando mia madre. Sono, forse, le ultime ore della sua lunga giornata. Si spegne lentamente per fame e sete. Non riesce più a deglutire. Ieri ha avuto una crisi molto forte, pensavo fosse il cuore: era la sete. La sua sofferenza mi ha attraversato l'anima e la mente è corsa spontaneamente a Lambert e ai tanti ormai, come lui, lasciati soffrire così disumanamente. Mia madre, 84 anni, ha una vita piena, una grande fede. Ora il suo corpo non può ricevere flebo, ma non vogliamo portarla in ospedale in mano ad altri. Muoia qui dove è l'abbiamo vista lavorare e amare, soffrire per noi. Un dolore, sì, ma anche una gloria, un vanto. Invece per i Lambert, gli Alfie, le Eluane di ieri e di oggi con il loro segreto destino interrotto bruscamente, quale gloria, quale dignità? Mi guardo attorno. Sulle pareti di casa ecco le foto di famiglia che ritraggono mia madre come era un tempo, e come resta indelebile nel cuore. Tra le foto c'è anche la riproduzione di un dipinto di Dalí: Persistenza della memoria.

Mia madre amava l'arte, vibrava per le cose belle; molto debbo a lei per la mia sensibilità e la mia attuale passione. Anche Dalí quella sera, in angosciosa attesa di sua moglie Gala, aveva davanti agli occhi qualcosa di già visto: il paesaggio marino e roccioso di Capo Creus dipinto anni prima e mai concluso. Fu assalito allora da una dolorosa solitudine e percepì per un attimo la vanità di tutte le cose. Prese allora la tela con le rocce di Capo Creus e iniziò a dipingerci sopra orologi molli. Voleva esprimere così l'inesorabile liquefarsi di tutte le cose. Sulla cipolla in primo piano un brulichio di formiche, segno della materia corruttibile che non regge all'urto del tempo. Chissà se poté percepire Dalí il dramma dell'eternità? Il nostro corpo non è eterno, ma l'esteriorità non è che l'involucro delle cose, come la cipolla non è che il contenitore dell'orologio. Il nostro destino non può che essere oltre. Il disfacimento del corpo non può essere l'ultima parola sull'uomo, diversamente anche noi un giorno saremo pasto alle formiche. Così forse pensano quelli che disprezzano l'uomo disabile. Ma no, non siamo pasto per formiche e proprio qui ora, al capezzale di mia madre, guardando il suo volto tanto simile alla figura centrale dipinta da Dalí, comprendo il dono enorme ricevuto, lo spessore di una vita che ora mi sta partorendo di nuovo nel dolore, ma un dolore di altro genere e di altra natura. Mi appaiono perciò così tristi quelli che scendono in piazza sbandierando per un progresso che uccide gli inermi, denigrando il valore inestimabile della famiglia fondata su un uomo e una donna, beffeggiando i principi non negoziabili in nome di una civiltà finalmente senza Dio. Il tempo non finisce mai quando sei al capezzale di una persona sofferente, come ha espresso Dalí si ha la sensazione di vivere minuti eterni. Eppure è in questo tempo dilatato che si cela l'ora della verità. L'ora in cui tutti gli infingimenti, le teorie, le bandiere più o meno vincenti che abbiamo innalzato scompaiono. Le battaglie di quaggiù non valgono nulla se non combattono per l'eternità, se non battono vie che non sono le nostre ma “altre”. «Ave Maria gratia piena dominus tecum»: la voce di papa Benedetto mi riporta alla realtà. La preghiera in latino calma mia madre. Nello stato di sopore in cui versa risponde muovendo appena le labbra. Sì, tutto è vanità dice Qoelet: restano solo la preghiera e la croce, il vero mare che ci traghetta verso altri lidi, simili al panorama sconfinato dietro gli orologi molli di Dalí.

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