domenica 9 ottobre 2011
Non sono stato un consumatore di musica moderna, né un collezionista. Ho sempre prestato, scambiato, perso non solo dischi ma libri, riviste, vestiti d'ordinanza. Ho attraversato, adottandone stili e comportamenti, buona parte delle mode che si sono succedute dalla fine degli anni '60 scegliendo quelle il cui carattere alternativo mi permettesse di rivendicarne valore morale e intellettuale. Frequentavo i concerti come un religioso frequenta le funzioni liturgiche. Un pezzo di cronaca sociale che definiamo: rivoluzione dei costumi giovanili ma è stata, semplicemente, l'invenzione della gioventù. Fino ad allora ai giovani era richiesto di crescere, il più alla svelta possibile, di diventare adulti e responsabili. Una mutazione sociale di carattere antropologico ha ridefinito e riposizionato le variabili umane attorno una fascia d'età, mal definibile e mitizzata, diventata il paradigma del bello, del nuovo, del gusto corretto. Anche un affare economico, l'invenzione di un nuovo mercato. Un rivolgimento che ha trovato nella musica la propria motivazione e insieme il miglior agente promozionale. Superfluo discutere del potere della musica sull'animo umano, dal battere ritmato più primitivo alla complessità di una partitura sinfonica. Con l'affermarsi di tecnologie della riproduzione e comunicazione sempre più sofisticate, ma facilmente fruibili, l'invadenza della musica tende a saturazione in un paesaggio quotidiano che perde progressivamente ogni carattere naturale, storico e geografico, per acquisire uno standard artificiale, omologato omogeneo, che vanifica le stagioni e la stessa alternanza giorno notte. C'è stato un periodo della mia vita in cui l'ultimo gesto cosciente della giornata era la scelta di una musica soft per addormentarmi e di una hard per svegliarmi. Decisi una terapia ad urto. Buttai nella spazzatura lo stereo dell'auto e l'impianto di casa e con un moto d'orgoglio piombai nel silenzio. Ero tornato ad abitare in montagna. Il paese che avevo lasciato trent'anni prima, affollato di gente e straripante bestiame, non risuonava più di voci, richiami, risate, imprecazioni. Scomparsi nitriti, muggiti, ragli, belati, restava l'abbaiare di qualche cane e nitido il suono delle campane. Mi ritrovai in una grande casa, umida, fredda, poca luce e molti spifferi e arrivò la musica che non pensavo: il canto della Creazione. Tumultuoso con vento e bufera, rarefatto con neve e gelo, noise con le poche attività umane: una motosega, una macchina, un trattore. Quanto alla dimensione visiva della musica, essenziale in un tempo determinato dall'immagine in movimento e tendenzialmente in tempo reale, trattasi d'avanguardia: il canto della Creazione riempie gli occhi quanto le orecchie. E il cuore. Per un decennio non ho ascoltato musica, mi devo essere perso qualcosa di cui non sento mancanza. Detestando l'eccesso di zelo e percependo il senso di ridicolo che accompagna in genere i cambiamenti repentini quando ho ristrutturato la casa ho comprato un impianto hi-fi e uno schermo video ma avendo perso l'abitudine all'ascolto sta quasi sempre spento. Ci sono alcune eccezioni. C'è un cofanetto: Bach, sei suites a violoncello, solo senza basso di Mario Brunello. È un regalo a lungo riposto, intoccato. Segno di un legame che permane a dispetto della non frequentazione, della lontananza. Una amicizia nata e possibile solo nell'adolescenza, di quelle che contribuiscono, in bene e in male, al formarsi della propria personalità. “Solitudine intimidatoria” è l'immagine che l'Ideatore Esecutore usa per presentarlo. “Solitudine consolante” è l'immagine che ne ricavo. Tre cd per tre serate, o pomeriggi d'inverno, da ascoltare stando in un'altra stanza perché il violoncello possa risuonare tra le mura di casa ed arricchirsi di sfumature domestiche. Un concerto che, grazie alla tecnologia contemporanea, offro a tutti coloro che qui, nel tempo, hanno vissuto; con la speranza che altri, in futuro, possano trovarvi rifugio, gioia e consolazione.
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