domenica 30 ottobre 2016
Sabato scorso, a Milano, ho tenuto una conferenza su un tema proposto dal “Laboratorio delle idee” del mio amico Francesco Migliarese. C'era il sindaco della città che ha fatto un'introduzione e se ne è andato prima che io cominciassi. Luciano Violante, con cui dovevo dibattere, non era presente a causa di una indisposizione. E dunque, mio malgrado, mi sono ritrovato da solo per parlare di individualismo. Ecco gli appunti del mio discorso. Punto primo. Il titolo su cui riflettere appare pleonastico, e dunque come qualcosa di assolutamente non problematico. È evidente che l'individualismo porta alla disgregazione della società. Se ciascuno si comporta egoisticamente come individuo separato dagli altri, cercando solamente di sfruttare gli altri, la società si disgrega. Bisognerebbe allora richiamare all'altruismo e ridurre il discorso a una serie esortazioni morali: “Siate generosi! Imparate a condividere!”... Ora, appelli di questo genere sono ancora individualistici. Si fa appello alla buona volontà, ma attraverso questo volontarismo l'individuo si trova ancor più a essere il fondamento della costruzione sociale. Si può invocare la costruzione di una società più giusta quanto si vuole: tale costruttivismo presuppone che la società risulti da un contratto stipulato tra gli individui e non che scaturisca innanzitutto da un dato naturale. Queste osservazioni conducono subito a due conclusioni. Primo, l'individualismo non deve essere confuso con l'egoismo, perché esso può essere altruista. Meglio ancora: l'altruismo è ancor più individualista dell'egoismo, potendo quest'ultimo apparire come una reazione a una precedente invadenza della società, mentre l'altruismo mi mette innanzitutto nella posizione di individuo che poi si volge verso l'altro se lo vuole. Secondo, si può dedurre che la critica dell'individualismo si fa quasi sempre a partire da una rappresentazione individualistica, ignorando l'alterità e l'alterazione che ci precedono e ci costituiscono. Punto secondo. Probabilmente l'individualismo non è la sorgente della disgregazione, ma, al contrario, il risultato di una costruzione sociale, o piuttosto di una comunità concepita esclusivamente come una costruzione. Il senso che diamo oggi alla parola “società” viene del XVII secolo. Prima con questo termine si intendeva solo un'associazione tra due o più individui sulla base di un contratto. Sotto questo aspetto, la famiglia non è innanzitutto una società, ma una comunità naturale il cui fondamento si trova in una doppia relazione differenziale che non è contrattuale ma fisica: quella dell'uomo e della donna, e quella consecutiva e al tempo stesso precedente, dei genitori e dei figli. Quando il fondamento della città non è più stato pensato a partire da una tale comunità naturale ma da un contratto stipulato tra individui, come in una società a scopo di lucro, che il termine società, nella sua accezione attuale, ha potuto imporsi. È il progetto sociale di smantellare le comunità naturali arcaiche, al tempo stesso troppo drammatiche e troppo immobiliste, e di elaborare un mondo a più alto rendimento, più ideale, più aperto al progresso, che inventa l'individualismo come un “a priori conseguente”, o come una “isterologia”, termine al cui senso retorico di inversione dei termini logici si coniuga un'eco patologica (una specie collettiva di isteria, quella malattia che ha per causa, secondo Ippocrate, un certo rifiuto dell'utero, della nascita e del differenza generazionale). Terzo: qual è questa società nuova? Quella del “paradigma tecno-economico”. Si fonda su alcuni postulati (ne declino sei) che sono quelli di un consumatore di fronte agli scaffali di un supermercato. 1) Ciascuno è fin dall'inizio un soggetto autonomo capace di scegliere. La libertà non è il frutto di un'educazione né di una responsabilità. 2) Questo soggetto opera le sue scelte per raggiungere un bene concepito come benessere individuale. 3) Tale bene si raggiunge non per via di saggezza o di prudenza, ma attraverso procedimenti tecnici. 4) La triplice tecnica di base per pervenire allo scopo è la messa in concorrenza degli individui, la mercificazione degli scambi e l'innovazione; questi tre fattori sono intimamente legati, poiché la concorrenza favorisce l'innovazione, l'innovazione stimola la concorrenza, ed entrambe implicano un'economia dove gli oggetti si acquistano col denaro che l'individuo guadagna vendendo se stesso. 5) Si suppone la rarità dei beni acquistabili: non ce ne saranno per tutti, e dunque la necessità della concorrenza e della crescita. 6) Questo suppone anche, come aveva capito Ivan Illich, una visione unisex. Affinché la concorrenza, l'innovazione e la mercificazione siano onnipotenti, bisogna ignorare la differenza uomo/donna e la divisione complementare, tradizionale o naturale dei compiti. Tutto deve diventare merce, compreso il fatto di avere figli, subappaltato oramai alle imprese di biotecnologia. Quarto punto. Tutti questi postulati sociali sono finzioni che disgregano lo stesso individuo. All'origine, come mostra Olivier Rey, l'individualità era concepita come un termine, non come un punto di partenza. Termine di un'operazione logica per la quale si suddivide l'essere in generi, specie, fino a giungere all'individuo, indivisibile e ineffabile (perché impossibile da definire in generale). Ma termine soprattutto di un'avventura esistenziale: risultato di tutta una genealogia, ogni figlio è chiamato a un destino singolare alla fine del quale riceve il suo Nome. È quanto raccontano i romanzi di cavalleria e l'Apocalisse di san Giovanni («Al vincitore darò la manna nascosta e una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo», 2,17). Non appena l'individualità viene presentata come un punto di partenza, l'individuo, strappato alle sue appartenenze naturali e storiche, diventa troppo debole per resistere alle sirene tecno-economiche che gli propongono la riuscita e il benessere attraverso il quantified-self, una vita dislocata in una serie di funzioni separabili e migliorabili, in una somma di parametri ottimizzati dall'algoritmo della felicità. Günther Anders parlava, già nel 1956, di questa scomparsa dell'individuo a vantaggio del “dividuo”. Come uscirne? Non proponendo un'altra costruzione sociale, ma pensando la politica nella cornice di un'ecologia integrale, ripartendo cioè del dato delle comunità naturali: la famiglia (comunità umana), l'agricoltura (comunità dell'uomo con la natura), il culto (comunità dell'uomo con gli dei, perché senza una fiducia nel Creatore e Redentore come accogliere ciò che ci è donato con i suoi drammi?). Per quanto terribili siano i tempi, è la Provvidenza che ci ha messo qui, ed è qui, nel dato della nostra epoca, che abbiamo la nostra missione.
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