Raccontare la strage, responsabili della tutela della dignità umana
venerdì 9 gennaio 2015
​Le
notizie e i commenti sulla strage
islamista nella redazione di 'Charlie
Hebdo' hanno monopolizzato
in queste ore l’attenzione
dell’informazione
globale. Interrogate Google News con la testata del
settimanale
e vi restituirà 27 milioni di pagine
da visitare: il
triplo di quelle relative
al Real Madrid (soggetto sportivo che ho
scelto come paragone per la sua popolarità: lungi da me considerare
sullo stesso piano le notizie sul calcio e quelle sul terrorismo).
Anche nella piccola Rete dell’informazione
e del dibattito ecclesiale
su cui tengo quotidianamente gli occhi puntati
quelle notizie e quei
commenti hanno sovrastato ogni altro argomento.
Non poteva accadere che
così, stante
anche la motivazione religiosa che ha armato gli
assassini. Ma neppure il modo del racconto si è distinto più di tanto da
quello generale. Come capita ogni volta che una storia è potente - e le
tragedie sono tali - è difficile, anche per chi comunica sulla base di
un’ispirazione
cristiana, avere la lucidità sufficiente
per non
cavalcarla.
Difficile, ma non impossibile.
Ad esempio,
ho trovato molta mediaetica nella scelta di 'Avvenire' di
documentare
sobriamente (e in parte) su carta,
ma di non contribuire a fissare sul web, pubblicandole sul proprio
sito, le immagini
del poliziotto freddato dai terroristi
per strada.
Avrebbero dovuto fare
altrettanto anche i profili personali sui social
network che rilanciavano le stesse immagini o certe ben note vignette

del settimanale, visto che nell’era
digitale siamo tutti soggetti
attivi e responsabili della comunicazione.
Come scriveva Piero Stefani in
un articolo
del 2006 (http://bit.ly/1KouD9m), riproposto dalla pagina
Facebook de 'Il Regno', la pubblicazione di vignette
offensive del
sentimento religioso è un capovolgimento del linguaggio dei movimenti
terroristici di matrice islamista,
i quali, «coinvolti fino al collo
nella cultura occidentale dell’immagine
», diffondono le immagini
raccapriccianti
della violenza che essi esercitano.
Anche questo
linguaggio va respinto:
«È una barbarie che offende la dignità della
persona».
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