giovedì 7 febbraio 2019
Su "Repubblica" di Firenze (1/2, p. 18) un pensiero denso di Salvatore Natoli: «Morire bene: è questa la sfida che ci aspetta». Pensare il morire, dunque, e persino viverlo, ma come "sfida". Miriadi di rimandi in catena con dentro tanto, quasi tutto, della letteratura del mondo nel tempo: dall'elogio dei "Morti alle Termopili" di Simonide all'interrogativo di Shakespeare e da "Come le foglie" di Mimnermo e poi di Ungaretti alla domanda "Che fai tu, luna, in Ciel?" nel leopardiano "Canto notturno": un'esondazione...
Natoli abituato a pensare di suo, ma forse nel pensiero, quel giorno, anche l'eco del "Sole 24 Ore" della domenica precedente (27/1 p, 30: "Quel confine rimane sempre aperto") di Gianfranco Ravasi che ricorda: «Ma per il cristiano l'Aldilà viene illuminato dalla resurrezione di Cristo». Ci ho pensato su anch'io e ho ricordato una prospettiva stimolante che inizia dal pensiero che forse "si chiudono gli occhi, ma per vedere meglio", e in concreto nella fede per vedere finalmente tutto. È anche la spinta della Parola: «Noi già siamo figli di Dio, ma ancora non si vede... quando si vedrà saremo simili a Lui» (I Gv. 3, 1-3). Tema centrale nella luce della fede che spera ed ama...
Una "teologia" del morire, dunque, come apertura all'eternità a disposizione della nostra libertà, quella libertà che Dio stesso ci ha donato e ci lascia sempre. "Vedere meglio..." dunque. E torna in mente un pensiero inatteso di un grande come san Giovanni Damasceno – Damasco! La città della "luce" per Paolo – «Proprio questo è per gli uomini il morire: quello che fu la prova per gli Angeli». Morire come prova di scelta suprema ed ultima, nella condizione di chi ha l'occasione unica di vista più acuta sulle "cose ultime" della realtà... Il Catechismo cristiano le ha chiamate "I Novissimi". Forse è grave non pensarci su, più spesso e meglio.
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