Quell'uomo da solo al comando, 70 anni fa
mercoledì 22 maggio 2019
Leggere il percorso della dodicesima tappa del Giro d'Italia, domani, non può che far mancare il fiato a chi ama il ciclismo: Cuneo-Pinerolo, punti cardinali di una leggendaria impresa sportiva del Novecento. Era il 1949, esattamente settanta anni fa, la tappa era lunga 254 chilometri e prevedeva uno sconfinamento in Francia e cinque colli alpini da scalare: Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro, Sestriere. A qualunque ciclista, per quanto forgiato nella fatica, farebbero paura uno alla volta, figurarsi tutti insieme. Poco più di un mese prima il Grande Torino era scomparso nell'incidente di Superga, strappando il cuore dal petto degli italiani. Un Paese che si stava rimettendo in piedi dopo il conflitto mondiale e che grazie a quella squadra aveva di nuovo imparato a sognare, se l'era vista portare via, tutta insieme, in un pomeriggio di pioggia. Due atleti leggendari erano lì, a raccogliere quell'eredità: Gino Bartali, che durante la Guerra aveva messo la sua bicicletta al servizio della Resistenza e Fausto Coppi, il Campionissimo, tifoso del Torino. Le condizioni per scrivere una storia struggente, insomma, c'erano tutte, ma la storia andò oltre e finì in epica.
Fausto Coppi, che aveva cucito sulla maglia uno scudetto del Grande Torino ricevuto in dono proprio dal suo amico Valentino Mazzola, poco dopo la partenza era fermo sul ciglio della strada. Era con lui il fedele gregario Sandrino Carrea, con un oleatore per lubrificare la catena del Campionissimo, quando dal gruppo si staccò Primo Volpi, cocciuto toscano di Castiglion d'Orcia, di orientamento politico anarcoide. Non era quello un momento ragionevole per andare in fuga, ma d'altronde era o non era un anarchico? Bartali uscì dal gruppo per mettersi alla sua ruota e Coppi non la prese bene. Saltò in sella, lasciò lì il suo gregario con l'oleatore ancora in mano, e si mise a inseguire. Ripresi i fuggitivi decise di non fermarsi e, in fuga, ci andò lui. Mancavano centonovantadue chilometri e quei cinque passi alpini. Rabbioso per quella furbizia, reso forte dal dolore rappresentato da quello scudetto cucito sulla sua maglia e da quella fatica che per i ciclisti dell'epoca era insieme malattia e medicina, Coppi decise che quello era il giorno giusto per firmare la sceneggiatura della sua storia.
«Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi», fu l'incipit della radiocronaca di Mario Ferretti. Nessuno poteva credere ai propri occhi, ma in mezzo al fango, su pendii che si fa fatica ad andarci a piedi, l'Airone di Castellania, senza voltarsi mai, spiegò le ali. Centonovantadue chilometri da solo: primo su ciascuno di quelle terribili salite e primo al traguardo. Gino Bartali arrivò quasi dodici minuti dopo. Venti minuti per vedere Alfredo Martini, il primo degli umani. Dopo il tramonto, gli ultimi.
Dino Buzzati scrisse sul Corriere della Sera: «Quando oggi, su per le terribili strade dell'Izoard, vedemmo Bartali che da solo inseguiva a rabbiose pedalate, tutto lordo di fango, gli angoli della bocca piegati in giù per la sofferenza dell'anima e del corpo – e Coppi era già passato da un pezzo, ormai stava arrampicando su per le estreme balze del valico – allora rinacque in noi, dopo trent'anni, un sentimento mai dimenticato. Trent'anni fa, vogliamo dire, quando noi si seppe che Ettore era stato ucciso da Achille. È troppo solenne e glorioso il paragone? Ma a che cosa servirebbero i cosiddetti studi classici se i loro frammenti a noi rimasti non entrassero a far parte della nostra piccola vita?».
Quella di domani sarà una tappa tutta italiana, un paio di salite complicate, nulla di che, mentre su altri percorsi corre un uomo che vorrebbe essere solo al comando, ma che la fatica non sa che cosa sia. Lo sport è sempre lì, come i classici, a regalare lezioni di un certo modo di stare al mondo. È sufficiente volerlo, studiare, ricordare.
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