mercoledì 3 settembre 2014
Le nevrosi di Manzoni, di Paolo D'Angelo (Il Mulino, pagine 216, euro 19,00), non è un trattato di psicologia e neppure di critica letteraria, bensì un interessantissimo studio sul perché del silenzio creativo di Alessandro Manzoni dopo lo strepitoso successo dei Promessi sposi. Anche un altro grandissimo dell'Ottocento, Gioacchino Rossini, fu colpito da una sindrome analoga: dopo aver inanellato capolavori come L'italiana in Algeri, Tancredi, La cambiale di matrimonio, Cenerentola, Il barbiere di Siviglia, Guglielmo Tell, nel 1828, a trentasei anni, diede addio alla musica. Un silenzio esibito, anche se non assoluto, perché lo Stabat Mater del 1842, e la Petite Messe solennelle del 1863 (due anni prima della morte) non sono bagatelle.Ma se per Rossini il silenzio può essere interpretato come un inaridirsi della vena dopo un periodo di autentico furore creativo, e come una distonia con i tempi nuovi scanditi da Bellini e Donizetti, per Manzoni le cose sono ancor più complicate. Sia le tragedie, Il conte di Carmagnola (1816) e Adelchi (1820-22), sia I promessi sposi (1827 e 1840) sono attraversati dal rovello sui rapporti tra storia e invenzione (poesia) che Manzoni interpretava come conflitto tra verità e finzione. Goethe, recensendo con entusiasmo il Carmagnola, si permetteva però di pregare l'autore di non far valere mai più la distinzione dei personaggi in ideali e storici, perché «per il poeta nessun personaggio è storico; ciò che desidera è presentare il proprio mondo morale, e a questo scopo egli accorda a certi personaggi tratti dalla storia l'onore di prestare alle proprie creature i loro nomi». Ben più drastico il Foscolo che, mettendo insieme il Carmagnola e la recensione di Goethe, sentenziava «l'imponente vanità d'uno scrittore che vuol farla da poeta insieme e da critico e da antiquario, con la speranza che, se gli altri meriti gli saranno negati dal mondo, uno, non foss'altro, gliene rimarrà ad acquietare alla meglio la sua impazienza di fama».Anche a proposito del romanzo Goethe rinnovò quelle riserve, e proprio per rispondere alla sua recensione (in realtà scritta dal discepolo Streckfuss, ma Manzoni la credeva goethiana), Don Lisander si dedicò al discorso Del romanzo storico, pubblicato nel 1845 ma in elaborazione almeno da un ventennio. Manzoni decretò che il romanzo storico era ormai un genere letterario senza futuro, pronosticando la vittoria della storia sull'invenzione. Del resto, egli era giunto al punto di non volere «a nessun patto chiamare assolutamente belle le fandonie dell'Iliade», e di definire «una minchioneria» il suo stesso romanzo.Manzoni, com'è noto, soffriva di varie nevrosi, e descriveva sé stesso come «povero convulsionario». Più grave era l'agorafobia, la paura degli spazi aperti, al punto di non poter uscire di casa se non accompagnato da persona di fiducia, sia pure il quattordicenne figlio Pietro. D'Angelo, che insegna Estetica all'Università di Roma Tre, suggerisce che il timore di affidarsi agli orizzonti sconfinati della libera invenzione artistica, sia quasi una sorta di agorafobia letteraria, che costringeva lo scrittore ad afferrarsi all'illusoria solidità della storia. Illusoria, diciamo noi, perché, come aveva avvertito Goethe, anche la storia è pur sempre narrazione. L'errore, scrive D'Angelo, «è supporre che la finzione, il prodotto artistico, se non si lega alla realtà debba per forza sfociare nella sua antitesi, il falso (Manzoni: “Dell'inventato, che è quanto dire del falso”)». Basta Guerra e pace per dimostrare quanto il romanzo storico può apportare sia alla letteratura sia alla storia (Tolstoj, stranamente, non è citato nel bel libro di Paolo D'Angelo) e, in tempi più vicini a noi, almeno Leonardo Sciascia ha saputo fornire esempi convincenti.
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