martedì 17 ottobre 2023
Il caso della celebre scrittrice di thriller Camilla Läckberg è curioso. Autrice da 30 milioni di copie, inutili comunque (a mio avviso) a garantirle un qualche
accesso alla storia della letteratura, è oggetto di una indagine sui generis. La notizia è che sarebbe colpevole di non avere scritto alcuni dei testi recanti la sua firma. Chi ha scoperto l’arcano? Un contributo fondamentale è venuto dall’algoritmo che ha analizzato la struttura narrativa dei volumi, giungendo alla conclusione che fosse opera del fedele editor con cui la nostra collabora, Pascal Engman. Il fatto, della cui veridicità si occuperanno indagini noiosissime e prive di significati aggiuntivi che non siano quelli puramente commerciali, ci consegna alcuni paradossi interessanti. Per cominciare, sono passati almeno cento anni da quando l’arte (posto che quella modalità di scrittura possa definirsi tale) si è sdoganata dalla necessità di una relazione univoca tra opera e autore finale, almeno per ciò che concerne la forma pragmatica dell’evidenza con cui l’opera si manifesta. Scalpellini e ghost writers prosperano da secoli. Il fatto che Pascal Engman sia l’autore fantasma di un thriller attribuito alla scrittrice non fa alcuna differenza se viene licenziato dalla stessa come proprio, denotazione che ne assume tutto il carico estetico formale, qualunque esso sia.
Se poi Pascal, nel caso specifico, è consenziente, vengono a mancare elementi su cui ragionare anche in termini di proprietà intellettuale. Degno di nota, invece, è lo spaccato circa quali siano le profondità dei temi che pone
l’intelligenza artificiale. A scoprire il presunto inghippo è stato un algoritmo, identificato nella vulgata d’autore come falsario per eccellenza. Qui il falsario diventa investigatore di falsari, compie la metamorfosi da sospettato a giudice. Se si trattasse di magistrati e politici, parleremmo di incompatibilità delle carriere per le IA. Le quali invece, indifferenti alle categorie, oltre a manifestare proprietà miracolose come la ubiquità pressoché illimitata, sono dotate di una intercambiabilità dei ruoli che non può non avere profonde conseguenze nel campo di ogni ontologia filosofica. Le IA cambiano ruolo senza
cambiare ruolo. La scrittura, loro motore-essenza, è strutturata nella forma di ambiti così contigui da annullare qualsiasi soluzione di continuità. Le IA non hanno ambiti , li generano, li frantumano, li investigano e li reinventano,
mutuando il costante moto proteiforme delle forme sintattiche cui danno concretezza attraverso la propria stessa materia: la scrittura. Questo contrappasso dantesco in un caso di letteratura che si rivolge a palati in cerca di distrazione ci permette di scrutare lo spaccato fugace del futuro già presente. Tra i due ruoli, investigatore e colpevole, la IA non filtra secondo processi osmotici svaniti, nessun diaframma, nessuna membrana o reticolato cognitivo, nessun contesto. La IA è indifferente allo scopo e a ogni proclama di etiche imposte, tanto inutili quanto necessarie per tentare di porre argini a ciò che per definizione li ha dissolti . L’indagine che l’algoritmo ha svolto sul thriller di turno della povera (si fa per dire) Camilla non sarebbe stata diversa se l’oggetto fosse stato Fëdor Dostoevskij. Scrittura è scrittura, le categorie della poesia spianate su un livello di
orizzontalità sintattica vertiginoso e affascinante, mostro acefalo che dovremo
prima o poi guardare in faccia; l’unico modo, io sospetto, sarà ridurci alla sua stessa essenza, dissolversi
in scrittura pura dove puro naturalmente non avrà più alcun significato. © riproduzione riservata
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