domenica 6 febbraio 2005
C'è «un vuoto storiografico sui femminismi negli anni Settanta»: è «il rapporto irrisolto con la violenza». Così La Repubblica (mercoledì 2) riporta il pensiero della storica Anna Bravo, già militante di Lotta Continua, che non rinnega il proprio passato, ma scrive che di quella violenza «portiamo una responsabilità per averla agita, tollerata, misconosciuta, giustificata» anche «nell'immaturità con cui le donne si misuravano con la questione dell'aborto». Ventisette anni dopo, La Bravo difende ancora la legge 194, ma ammette: «Tendevamo a sorvolare sul fatto che le vittime erano due, la donna e anche il feto». E aggiunge «che non sempre la donna era una vittima: poteva sceglierlo» magari «per ostilità alla propria madre, perché c'erano altre priorità» o perché «per i figli c'è tempo». E poi quello «di cui allora si parlava poco o quasi niente»: del «feto» (scrive «feto» e non figlio, ma non importa), che «fosse materia vivente non implicava considerarlo una vita. Tuttavia non abbiamo mai discusso sul passaggio dall'una all'altra condizione. Né nei nostri documenti c'è mai traccia della sofferenza del feto prodotta dall'inter- ruzione della gravidanza». La Bravo ricorda anche che «la politicizzazione della campagna sull'aborto aveva avuto l'effetto di ridurlo a una sorta di diritto civile, a un obiettivo di progresso contro la reazione» e che «in questa liquidazione dei grandi temi agiva anche l'incapacità di misurarsi con la morte» che le femministe consideravano «un evento naturale scritto nella lotta politica». Anche sul «terrorismo di sinistra Anna Bravo ha parole molto dure», scrive Repubblica: «Ci riconoscevamo nell'ideologia della violenza rifondatrice» ed era «debolissima la consapevolezza del dolore irreparabile procurato». Ricordo che chi, allora, riconosceva la comune radice del terrorismo delle Br e dell'aborto era coperto d'insulti. Chissà, un giorno, forse fra 27 anni, Anna Bravo o qualcun altro si accorgerà che anche nella fecondazione artificiale (specialmente se il referendum riuscisse) c'è una dose paurosa di violenza. TANTO LA FATWA NON C'E' Il Comune di Milano ha proibito, perché offensivo del sentimento religioso, un manifesto pubblicitario che, con dodici modelle anoressiche e un giovane seminudo (San Giovanni?) simula l'Ultima Cena leonardesca. Tutti i giornali, però, lo hanno pubblicato (venerdì 4) e La Stampa ha osservato che la censura era calcolata e, comunque, aumenta l'effetto pubblicitario. Il martedì precedente, La Repubblica aveva messo in prima pagina «Le risate della Madonnina», tentativo di Stefano Benni di fare umorismo sulla Madonnina di Civitavecchia. Al solito, queste cose si fanno nei confronti del cattolicesimo. Nessuno , per fortuna, offende gli ebrei, perché non sarebbe politicamente corretto; e ancor meno l'Islam, coi kamikaze che girano... E poi nella Chiesa la fatwa non si usa. COMUNISTI L'ex direttore del «quotidiano comunista» il Manifesto, Riccardo Barenghi, già, autore di una rubrica («Le jene») feroce persino con i fratelli separati Ds, e titolare della corrispondenza con i lettori, è passato a La Stampa, giornale dei padroni della Fiat, come editorialista. Sul Manifesto compaiono ora molte lettere pubblicate, credo con compiacimento. Eccone due. La più cattiva: «Ha abbandonato una squadra corsara sempre in lotta contro il potere dominante per approdare alla corte degli Agnelli. Ha perpetrato il tradimento dell'anno. Chi è: Riccardo Barenghi o Fabio Capello?» La più buona: «Un saluto e un ringraziamento per tutti gli anni in cui ha
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