domenica 21 dicembre 2014
Il migliore commento ai Dieci Comandamenti di Roberto Benigni, tra quelli della stampa cosiddetta "laica", è con molta probabilità – trascurando alcune piccole e non gravi sbavature – quello di Marco Politi e, come si vedrà, non solo perché inaspettato sul Fatto Quotidiano. I meno felici quelli di Elena Loewenthal sulla Stampa e di Corrado Augias sulla Repubblica (tutti giovedì 18). La prima, di questi due, comincia citando un famoso rabbino, l'ultracentenario Bet Hillel, vissuto tra Babilonia e Gerusalemme ai tempi di Gesù e lamentando che Benigni avrebbe preparato la sua esibizione «stando su una gamba sola», cioè «nel tempo in cui restava in bilico così» e aggiungendo, con un pizzico di gelosia religiosa, che «Benigni non ha mai nominato la parola "ebraico"». Cosa che non risponde a verità e che forse dipende dalla preoccupazione di un attore cattolico quanto meno di cultura. Il secondo perché, per scrivere che Benigni sarebbe rimasto prigioniero della «"favola" della religione», ricorre ad alcuni pensatori quanto mai di... attualità: Machiavelli (XVI sec.), Goethe (XVIII sec.) e lo storico della letteratura Francesco De Sanctis (XIX sec.).REALTÀ VERA E IMPOVERITADi Benigni scrive Politi: «Un racconto sostanzialmente laico [...], in cui Dio non è un'astratta costruzione teologica, persa in una sfera trascendente al di là del mondo, ma ritrova i tratti fortemente umani dell'Essere che parla a tu per tu con l'uomo, che viene in suo soccorso [...] Altrettanto laico valido per credenti e non credenti, è il rifiuto della distorsione e dell'abuso del nome di Dio con cui i violenti seminano morte e disperazione [...] In questa semplicità di predica laica Benigni incrocia, e non per caso, l'immediatezza delle riflessioni, dal timbro egualmente laico, di papa Francesco...».Queste note del "laico" Politi sono, piuttosto, una conferma di quanto la Chiesa e la fede dei cristiani siano anche pienamente "laiche" o, meglio, di quanto la fede comprenda ed esprima la vera laicità. Tornano alla mente, sicuramente anche di Politi, le parole con cui s'inizia la Gaudium et Spes del Vaticano II: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore...». Il primo vero laico è il vero credente, di fronte al quale certo laicismo si palesa un impoverimento della realtà. Vedi, per esempio, il laicissimo scrittore Fulvio Abbate che, a una domanda di Libero sulla religione, risponde: «Per me il tagliaunghie ha una sua utilità, la religione no». Tanto per restare ai commenti a Benigni, non è il caso di preoccuparsi se il Manifesto insiste a scrivere "dio" con la minuscola perfino quando cita parole dell'Arcivescovo di Firenze e quando "dio" segue a un punto. Anche qui Alessandro Manzoni direbbe: va', va', povero untorello, non sarai tu quello che spianti il Creatore.IL DUBBIOSO SENZA DUBBISu D, la Repubblica delle donne una lettera ben argomentata contesta alfilosofo Umberto Galimberti di aver scritto nella sua rubrica: «Non so se Dio conosce la differenza tra bene e male... Dio dubita della propria onniscienza» e poi che anche «Gesù dubita della volontà di Dio di evitare il dolore la sofferenza, il male...». Ed ecco la replica di Galimberti: «I credenti "buoni", quelli che non disprezzano i miscredenti [...] leggono i non credenti come persone che vorrebbero credere, ma non ce la fanno...». E conclude: «È inutile parlare di fede con chi non ha mai dubbi». Ha ragione: è inutile parlare di fede anche con chi, come lui, «non ha mai dubbi».
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