martedì 25 ottobre 2011
   Qualche  anno fa un giornalista del New York Times, Clifford J.Levy, fu inviato a Mosca come corrispondente. Sarebbe rimasto nella città russa per cinque anni e si portò dietro tutta la famiglia: moglie e tre figli. Il maschietto aveva otto anni, la sorella più grande dieci, la più piccola andava ancora all’asilo. In disaccordo con la moglie, il giornalista decide che i suoi tre bambini non frequenteranno una scuola internazionale dove si parla la loro lingua, l’inglese. Li iscriverà invece in una scuola del posto dove si parla e si studia solo in russo. I suoi colleghi dicono che è matto e che farà ammattire i suoi bambini. Ma lui all’esperimento ci crede. I primi tempi sono durissimi. I bambini telefonano al padre dalla scuola scongiurandolo di venirli a prendere, dicendo che hanno mal di testa, mal di pancia e un sacco di altri malanni immaginari. A casa sono tristissimi. Dicono che non capiscono assolutamente nulla, e che si sentono isolati. La ragazzina più grande è la più coraggiosa e si sforza giorno dopo giorno di impadronirsi di quella lingua così diversa dalla sua, a partire da quello strano alfabeto chiamato cirillico. La scuola dove il padre li ha iscritti è una scuola privata fondata da un maestro di idee progressiste che cerca di unire il rigore della scuola russa tradizionale e il rifiuto del conformismo. Ha le idee rivolte al futuro e non è ben visto dalle autorità locali. Il maestro, che parla anche inglese, incontra spesso il giornalista e la moglie e spiega loro quali sono i suoi criteri educativi. È un maestro che vuole sviluppare nei suoi alunni innanzitutto la capacità di pensare e di combattere stereotipi e luoghi comuni. Per semplificare, un giorno dice al giornalista: «È da stupidi credere che due più due fa sempre quattro. Quanto fa due gatti più due salsicce? Fa due gatti. E quanto fa due gocce d’acqua più due gocce d’acqua? Una goccia d’acqua». Passano i mesi e i bambini si adattano sempre meglio alla nuova situazione. Imparano la lingua, si fanno tanti amici, a scuola mangiano i cibi che mangiano i loro compagni. Dopo cinque anni, al momento di tornare in America, il padre dice che sembrano più russi che americani e che non vorrebbero partire. Eh, sì, i bambini imparano presto che non esistono frontiere anche se tutti siamo stranieri per qualcuno.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: