Quando Ortega y Gasset definì Proust uno «scienziato» dell'esperienza
sabato 18 giugno 2011
C'è qualcuno oggi che si impegni a leggere Proust? Questo grande classico del Novecento, questo erede sia di Montaigne che di Balzac, appare oggi fuori misura, ma sembrò tale anche all'inizio degli anni Venti. Proust morì il 18 novembre 1922 e già nel gennaio successivo la "Nouvelle Revue Française" pubblicò un numero dedicato a lui. Nelle edizioni Medusa compare ora una scelta di quegli scritti con il titolo Proust e i suoi amici (prefazione di Giancarlo Pontiggia). Prevalgono le testimonianze e i ricordi di chi lo conobbe di persona. Ramon Fernandez dice che a sentirla la voce di Proust era «miracolosa, prudente, discreta, astratta, punteggiata, ovattata» e sembrava formarsi non dalla gola ma «nelle regioni stesse dell'intelligenza». Percepire e capire le cose in se stesse, nella loro atmosfera, era la sua vocazione. Più che un "creatore", Proust era un "inventore" della realtà: la scopriva interamente di nuovo attraverso la memoria, al di là dei suoi contorni e confini stabiliti.
In tutti questi scritti (di Paul Valéry, André Gide, Jean Cocteau, Jacques Rivière, Ernst-Robert Curtius, Emilio Cecchi e altri) si legge qualcosa di notevole e di essenziale che avvicina a Proust e alla sua epoca. Ma forse lo scritto più originale è di José Ortega y Gasset: secondo il quale, appunto, Proust non costruisce un mondo immaginario, ma somiglia piuttosto a uno scienziato che scopra una diversa dimensione della verità e dell'esperienza. Le cose di cui parla Proust sono poco più che pretesti. La prolissità e la minuziosità sono le sue muse, due strumenti necessari a percepire l'identità fluttuante ma non dinamica di personaggi, situazioni e sentimenti. Secondo Ortega «l'esistenza dei personaggi di Proust ha un carattere vegetativo. Per la pianta, vivere è essere e non agire». Nei tanti volumi di Alla ricerca del tempo perduto non succede quasi nulla. Il grande romanzo «si dilata senza progressi», è un'opera contemplativa e non attiva: «pagine e pagine, durante le quali restiamo immobili».
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