Quando lo spread cala c’è un interesse che sale
domenica 17 marzo 2024
L’altroieri il Financial Times, storicamente avaro di complimenti con l’Italia, ha notato e benevolmente sottolineato che lo spread tra i
nostri titoli di Stato e i
Bund tedeschi viaggia ai minimi da due anni, cioè dall’ultima finestra del governo guidato da Mario Draghi, e da inizio anno è sceso dello 0,4%. Dietro alla corsa dei titoli di Stato italiani, ragionano i giornalisti dell’Ft, c’è «la crescente fiducia del mercato nella gestione dell’economia da parte della Premier Giorgia Meloni, in un momento in cui la crescita in Germania è in fase di stallo». Vale la pena ricordare che lo spread è la distanza - in punti base - che separa due diversi rendimenti finanziari, che a loro volta misurano il rischio sottostante ai rispettivi titoli: quanto più sono alti, tanti più interessi si incassano in cambio di investimenti che il mercato considera più rischiosi. Lo spread più ricorrente, entrato nell’immaginario collettivo nell’autunno 2011 all’apice della crisi dei debiti sovrani, è quello che si calcola utilizzando come riferimento il Bund decennale, storicamente considerato il titolo più sicuro in circolazione sui mercati. Per l’Italia, rispetto alla Germania, in questo momento le cose vanno bene perché a inizio anno lo spread era intorno a quota 165 punti (cioè l’1,65%), l’altroieri ha chiuso a 125 punti, dunque lo 0,4% in meno. Però lo spread non è un valore assoluto ma relativo, corrispondente al confronto con qualcos’altro. Il valore assoluto è piuttosto il rendimento, vero polso - come accennavamo - dello stato di salute che il mercato attribuisce a chi emette quel titolo. In questo caso per il Tesoro il responso è meno lusinghiero: oggi il BTp decennale paga un interesse annuo pari al 3,7%, più o meno come a inizio anno. Tradotto: in assoluto, l’Italia oggi è considerata rischiosa come a inizio 2024 e un po’ meno di un anno fa (quando viaggiava al 4%), anche se più ci si sposta indietro e più cambiano le condizioni di contesto, a partire dai tassi di riferimento delle banche centrali. Non solo: rispetto ai concorrenti del nostro campionato e della nostra categoria, continuiamo a restare indietro considerato che la Spagna paga un interesse del 3,2%, il Portogallo del 3% e la Grecia poco meno del 3,3%. Dunque la soddisfazione che si può togliere l’Italia per ora è limitata al confronto con la Germania, che economicamente non se la passa benissimo. A penalizzare i sicurissimi Bund, poi, c’è anche il quadro macroeconomico generale, con un 2024 iniziato decisamente meno peggio del previsto che ha spinto gli investimenti sui titoli più rischiosi, proprio come quelli italiani. Sta di fatto che all’Italia un po’ di vento in poppa non può che fare bene, considerato che in base alle stime di Standard & Poor’s quest’anno dovrà rifinanziarsi sul mercato per 390,3 miliardi, un paio in più dello scorso anno: se i tassi scenderanno, il Tesoro dovrà pagare meno interessi. Ma ci sarebbe anche un altro vantaggio da provare a capitalizzare in questo inizio di 2024, alla voce “mal comune mezzo gaudio”.
Il debito-monstre italiano, di poco inferiore ai 3mila miliardi di euro, è pari al 18% del totale europeo, un indebitamento pubblico che entro dicembre vedrà i Paesi europei costretti a rifinanziarlo attraverso 1.840 miliardi di nuove emissioni, ha calcolato sempre S&P. Una cifra gigantesca, che dà la misura di un problema italiano ma non solo. Quale miglior momento per prova a dare finalmente forma al debito comune, come più volte paventato negli ultimi mesi da diverse autorevoli voci, da Mario Draghi a Emmanuel Macron? Quando si riduce la distanza tra i rendimenti dei singoli Stati, in fondo, sale l’interesse a trovare soluzioni comuni. © riproduzione riservata
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