giovedì 1 marzo 2018
Un uomo aveva due figli, Anzi, tre, ma è sui primi due che occorre concentrarsi. Come nella parabola del padre misericordioso, esatto. Anche qui c'è un figlio che va e uno che resta, anche qui la grazia passa per vie inattese, anche qui si celebra un ritorno. Un ritorno alla vita in senso letterale, perché la resurrezione alla quale il regista danese Carl Theodor Dreyer ci fa assistere in Ordet - La Parola è uno dei momenti più alti del cinema spirituale di tutti i tempi. Ammesso e non concesso che, essendo questa l'arte del negoziato fra visibile e invisibile, possa esistere un cinema che non sia in qualche misura spirituale.
In Ordet (vincitore del Leone d'Oro a Venezia nel 1955) convivono dunque un racconto visibile, che scorre davanti ai nostri occhi, e uno invisibile o, se si preferisce, implicito. Il primo livello è quello al quale abbiamo già fatto cenno con il richiamo alla parabola del Vangelo di Luca. In un villaggio della provincia danese vive il vecchio Morten Borgen (interpretato da Henrik Malberg), uomo giusto e timorato del Signore. Uno dei suoi figli, l'altrimenti assennato Mikkel (l'attore Emil Hass Christensen), non crede più in Dio, a differenza di Johannes (Preben Lerdorff Rye), il suo visionario fratello che, a forza di studiare Kierkegaard, si è persuaso di essere il Cristo redivivo e adesso gira come un vagabondo per le campagne. Ci sarebbe anche l'ultimogenito, Anders, che a sua volta affronta un dramma non del tutto secondario per lo svolgimento della trama, ma nel film, così come nel dramma da cui è tratto, il confronto principale rimane quello tra il miscredente Mikkel e il mistico Johannes. I due si fronteggiano da lontano, fino a quando la moglie di Mikkel, la bella e quieta Inger (impersonata da Birgitte Federspiel) muore di parto insieme con il bimbo appena venuto alla luce. Né la scienza né la religione ufficiale, rappresentate dal medico condotto e dal curato, riescono a dare risposta a questo dolore straziante. E neppure Johannes avrebbe a soluzioni da offrire, se non l'abbandono incondizionato alla Parola (ordet in danese) capace di richiamare in vita i morti. Inger si risveglia, appassionata e febbricitante, e continua a ripetere, come in una preghiera, la sua invocazione alla vita.
E la storia nascosta? Ha per protagonista Kaj Munk, autore nel 1932 dell'opera teatrale che Dreyer porta sullo schermo attendendosi a una fedeltà non priva di sottili licenze. Pastore della Chiesa danese e drammaturgo affermato, Munk fu ucciso dai nazisti nel gennaio del 1944, a 46 anni non ancora compiuti, in rappresaglia alla coraggiosa posizione assunta contro l'invasione tedesca della Danimarca. Impossibile, affermava nei suoi sermoni, ipotizzare qualsiasi alleanza fra la Croce e la croce uncinata. E aggiungeva: «Nella casa di Dio, la parola è libera: non perché ne possiamo disporre, ma perché è essa stessa a disporre di noi». Spesso accostato al confratello Dietrich Bonhoeffer per la comune militanza antihitleriana, Munk è una figura ancora poco conosciuta nel nostro Paese, ma il cui nome risulta indissolubilmente legato al capolavoro di Dreyer. Il quale, per conto suo, è un cineasta non meno complesso e profondo, come dimostrano – ancora nella stagione del muto – film apparentemente discordanti quali il terrificante Vampyr del 1932 e, nel 1928, il magnifico La passione di Giovanna d'Arco con la memorabile Renée Falconetti nel ruolo della Pulzella e il poeta Antonin Artaud in quello del suo tormentato confessore. L'invisibile non può a fare a meno di manifestarsi, sembrano dirci insieme Munk e Dreyer. E quando l'invisibile si manifesta, è sempre la Parola che prende forma.
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