mercoledì 19 settembre 2018
Nel circostanziato ritratto che venerdì scorso Alessandro Zaccuri ha dedicato a Guido Ceronetti, spentosi novantunenne il giorno prima, ci sono due ben precise intuizioni: Zaccuri definisce lo scrittore «un credente senza Dio» e aggiunge: «Non era cristiano, anche se dal cristianesimo continuava ad aspettare qualcosa».
Sono un fedele lettore di Ceronetti, stregato dalla sua scrittura erudita e spiazzante, e conservo alcune sue lettere che restituiscono di lui un'immagine diversa da quella divulgata nei necrologi di questi giorni: non era soltanto l'intellettuale altero e allontanante che ci vogliono far credere, ma uno scrittore sensibile alle attenzioni e addirittura umile.
Questa è la mia testimonianza. Ero rimasto folgorato dalla sua traduzione del Qohélet, pubblicata da Einaudi nel 1970: la recensii con entusiasmo, pur rilevando alcune criticità. In particolare, avevo ammirato in Ceronetti l'opposizione tra l'occhio e il ventre che egli, sulla scorta di un testo laotsiano («Il santo si occupa del ventre e non dell'occhio») ravvisava in Qohélet: «L'occhio – avevo scritto – è l'intelletto astratto, il “cervello” (magari elettronico) di ogni tempo, la parola vana che non salva; il ventre è l'interno, l'esperienza vitale, l'incarnazione. Se non che Ceronetti (e con lui gli intellettuali “laici” – Elémire Zolla in testa), affermando che “nessuno ha potuto farne (di Qohélet) un annunciatore di cristianesimo” è caduto proprio nella trappola dell'occhio». Dopo aver citato Giovanni 7,37: «Chi ha sete, venga a me e beva. Dal ventre di chi crede in me, come dice la Scrittura, scaturiranno fiumi di acqua viva», concludevo: «Chi non passa per Cristo, dunque, è condannato alla dispersione dell'occhio».
Da Ceronetti ricevetti questa lettera datata Albano L. (lo scrittore non si era ancora trasferito a Cetona), 14 dicembre 1970:
«Signor Direttore, l'orribile distrazione e fastidio in cui cadono ormai, nonostante le finte premure dei lanci ec., tutti i libri, ha risparmiato (è molto strano, e quasi un segno) il mio Qohélet einaudiano, e tra le sue invidiabili fortune metto ora anche la lettura che gli è stata, in “Studi cattolici”, da Lei dedicata. La ringrazio, non per il favore soltanto dimostratomi, ma per la ricchezza dell'interesse al testo e per il beneficio – di questo si ha veramente bisogno – delle obbiezioni di carattere religioso.
«I cristiani non reagiscono più a niente! Non c'è più gusto ad attaccarli se i punti vitali di questa religione non trovano più difensori. In fondo c'è unità soltanto tra spiriti profondamente discordi, ma che credono ancora all'importanza assoluta di tre o quattro interrogativi, circa il destino umano, d'ordine metafisico.
«La citazione di Giov. 7,38 è preziosa. Ed è forse vero che ho ceduto, nelle note, a tentazioni “oculistiche”. Nessuno è immune da questo, perché non abbiamo più alle spalle il disinfettante deserto, e il cervello separato è malattia anche di chi arriva a diagnosticarla.
“Su Qohélet testo o no “rivelato” non credo ci sia nella mia introduzione una radicale esclusione. Ma si può dedurla come implicita… In realtà non ho una certezza assoluta. “Rivelazione” è per me un intoppo e un enigma. Vedere in Qohélet una prefigurazione cristiana, come nel resto dell'A. T., questo mi sarebbe rigorosamente impossibile, e anche vedere Qohélet come un compagno d'ispirazione dei Profeti. L'ispirazione ex alto mi sembra di poterla scorgere soltanto nei Profeti. Ma benedetto chi mi aiuta, ostacolandomi e complicandomi le cose, tanto da costringermi a tornarci sopra infinite volte.
«Mi creda, con viva gratitudine e stima,
Suo Guido Ceronetti».
Ceronetti era anche così. Aveva dedicato quindici anni di lavoro alla traduzione del Qohélet; dieci anni dopo pubblicò una seconda edizione riveduta, ancora migliorata in qualche punto, e leggermente peggiorata in altri. Adesso, nella luce definitiva, tutto gli starà sembrando chiaro.
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