venerdì 3 marzo 2017
Un interrogativo ricorrente negli ultimi anni è quello sul linguaggio religioso. Come parlare dell'esperienza religiosa in modo da renderla rilevante per i nostri contemporanei? Qual è il linguaggio che può offrire all'annuncio della fede una ritrovata e necessaria freschezza? Come rompere con le forme di espressione che hanno perso leggibilità e si sono consunte con l'andar del tempo? È un dibattito di importanza non secondaria, poiché sgorga da un problema fulcrale: quello della trasmissione. Si tratta, evidentemente, di un dibattito che richiede contributi da aree diverse, ma che rappresenta uno dei casi in cui trovo fondamentale ascoltare gli artisti. Ricordo, per esempio, il lavoro pioniere della suora americana Corita Kent. Contemporanea di Andy Warhol e di Rauschenberg, è stata forse la prima artista a introdurre una dimensione religiosa nella pop art, ma anche a esplorare il linguaggio della pop art come possibilità per dire Dio. In una scuola di religiose di Los Angeles, Corita utilizzava la tipografia commerciale e il grafismo della pubblicità per comunicare. Questo il suo stile: ritagliare, incollare e ricomporre il prolifico arsenale della cultura popolare tentando di individuare, ovunque esso fosse, un messaggio di spiritualità. Guardava i pannelli pubblicitari come fossero parabole, e diceva: «Gloria a Dio per i paesaggi urbani: trasudano di segni».
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