giovedì 11 gennaio 2007
Una volta ci si interrogava sul senso del soffrire, oggi su quello dello stesso esistere. Che non appare privo di senso perché è tormentato dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché privo di senso. La sua opera più nota recava questo titolo piuttosto forte: L'uomo è antiquato. Günther Anders (1902-1992), filosofo tedesco di matrice ebraica, è stato uno dei più fieri contestatori della società contemporanea, dei suoi idoli, del suo stile di vita, della sua incoscienza. Ho scelto queste parole che meritano attenzione e meditazione perché colgono un aspetto del tutto aperto davanti a noi, appena ci affacciamo sulle strade dell'esistenza odierna. È vero, la grande letteratura, la filosofia e la teologia del passato erano scosse dal problema del male e del dolore perché esso lacerava una trama di vita e di valori che aveva un significato, che procedeva verso un fine, che rivelava al suo interno un progetto. Ai nostri giorni è difficile che questo accada perché non è più la sofferenza a creare disagio radicale (anzi, si cerca di liquidarla con ogni genere di eliminazione diretta e semplificata: si pensi solo all'eutanasia). Ormai il male non sconvolge più
una vita divenuta vacua, insensata, banale. L'uomo, però, non può essere per sempre tenuto in salamoia televisiva o pubblicitaria, e ogni tanto ha dei sussulti di coscienza. Il vero problema diventa, allora, la vita che si rivela «insopportabile perché priva di senso». Tante drammatiche reazioni dei giovani col loro approdo al vuoto dell'esistenza e al deserto della droga sono proprio l'emblema di questo snervamento morale, di questa flessione dello spirito, di questa superficialità, quando sono percepiti come unica qualità della vita, unica realtà della società. Ma percepire questo stato può anche diventare il primo gradino della salvezza.
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