Premierato e voto estero Puzzle molto complicato
domenica 31 dicembre 2023
Quando si interviene sugli assetti istituzionali, bisogna sempre valutare con estrema cura le ripercussioni che ogni singola modifica determina inevitabilmente sul complesso dell’ordinamento. È ben nota in questo senso la metafora dell’orologio spesso citata da Giuliano Amato. In questione non ci sono soltanto gli ingranaggi più vistosi del meccanismo costituzionale, anche dettagli apparentemente marginali devono essere attentamente soppesati e possono richiedere correttivi adeguati. Prendiamo il caso della partecipazione al voto dei cittadini italiani residenti all’estero. Attualmente essi eleggono, in un’apposita circoscrizione elettorale divisa in ripartizioni geografiche, otto deputati e quattro senatori. Il numero esiguo di seggi da assegnare ridimensiona il peso specifico di questo voto che in concreto esprime un parlamentare ogni settecentomila elettori invece che ogni centocinquantamila, come avviene per il voto dall’Italia. Una conseguenza voluta dal legislatore per tenere conto della diversa situazione effettiva degli elettori che risiedono fuori dai confini nazionali. Si tratta di alcuni milioni cittadini (circa sei) che in assenza di questo correttivo finirebbero con l’avere un’incidenza molto rilevante sulla composizione delle Camere. Ma se si arrivasse a introdurre l’elezione diretta del premier, che cosa accadrebbe? Trattandosi di una carica monocratica «il voto di ogni cittadino tornerebbe a essere uguale, uno vale uno». E il voto degli italiani all’estero potrebbe diventare decisivo per la scelta del capo del governo. A sollevare il problema, nel corso di un’audizione sul premierato presso la commissione affari costituzionali del Senato, è stata Roberta Calvano, professoressa ordinaria presso l’università Unitelma Sapienza di Roma. La costituzionalista ha anche sottolineato il rischio che questa dinamica, oltre a produrre l’effetto principale di condizionare in misura determinante il risultato della consultazione, renderebbe «macroscopiche» e potenzialmente «esplosive» anche alcune criticità del voto all’ estero, di cui «è stato finora possibile contenere i contraccolpi per via del numero ridotto degli eletti». Basti pensare al numero di schede non valide enormemente più elevato di quello registrato nel voto in Italia, con tutto un corredo di contestazioni e denunce di irregolarità. Anche in occasione dei referendum, peraltro, il voto all’estero vale come quello in Italia, ma finora i risultati sono stati così netti da scongiurare l’ipotesi di guerre legali a tutto campo. Al tempo della consultazione sulla riforma Renzi, è utile comunque ricordarlo, il comitato per il No aveva annunciato che, nel caso il voto all’estero fosse stato decisivo per una vittoria dei Sì, avrebbe presentato ricorso. Non è difficile immaginare che cosa potrebbe scatenarsi se la posta in gioco fosse l’elezione diretta del premier. Una partita che potrebbe anche sollecitare una partecipazione alle urne molto più alta di quella solitamente registrata all’estero. Come venirne fuori? Giuristi e politici dovranno mettersi al lavoro per cercare una soluzione che non sia la mera esclusione dei residenti all’estero dal voto per il premier. Sarebbe politicamente insostenibile, tanto più che il voto all’estero, introdotto a suo tempo con un consenso amplissimo, è storicamente un cavallo di battaglia proprio della destra. © riproduzione riservata
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