sabato 3 agosto 2019
Molte volte, dobbiamo ammetterlo, la preghiera è un qualcosa che corre via dalle nostre labbra in modo quasi automatico. Una formula astratta della quale ci sfugge anche il senso delle parole che diciamo, la loro grandezza. È il caso del "Padre Nostro", «uno dei doni più preziosi – ha detto Francesco domenica scorsa – lasciatici dal divin Maestro nella sua missione terrena». La preghiera con la quale, proprio a partire da quella invocazione, «Gesù ci fa penetrare nella paternità di Dio, questo voglio sottolinearlo, e ci indica il modo per entrare in dialogo orante e diretto con Lui, attraverso la via della confidenza filiale. È un dialogo del papà col suo figlio, del figlio col papà». Nel 1994, l'8 agosto, Giovanni Paolo II avrebbe dovuto essere a Sarajevo, ma il viaggio saltò all'ultimo momento. Wojtyla allora celebrò la messa a Castel Gandolfo, leggendo l'omelia che aveva preparato per il viaggio mancato. Un testo tutto centrato sul Padre nostro che iniziava così: «Pronunciamo le parole che ci ha insegnato Cristo, Figlio del Dio Vivente: Figlio consustanziale al Padre. Solo Lui chiama Dio "Padre" (Abbà - Padre! Padre mio!) e Lui soltanto può autorizzarci a rivolgerci a Dio chiamandolo "Padre", "Padre nostro". Egli ci insegna questa preghiera in cui è contenuto tutto. Desideriamo oggi trovare in questa preghiera quello che si può e si deve dire a Dio – nostro Padre, in questo momento storico, qui a Sarajevo». È questa la grande rivoluzione del cristianesimo, dove l'«essere figli – come ha scritto Benedetto XVI spiegando il Padre nostro nel suo "Gesù di Nazareth" – diventa l'equivalente di seguire Cristo. La parola che qualifica Dio come Padre diviene così un appello per noi: a vivere come "figlio" e "figlia". "Tutte le cose mie sono tue", dice Gesù al Padre nella preghiera sacerdotale, e la stessa cosa ha detto il padre al fratello maggiore del figliol prodigo. La parola "Padre" ci invita a vivere sulla base di questa consapevolezza. Così viene superata anche la smania della falsa emancipazione che stava all'inizio della storia del peccato dell'umanità. Adamo, infatti, sulla parola del serpente, vuole essere lui stesso dio e non aver più bisogno di Dio. Diviene evidente che "essere figli" non significa dipendenza, ma quel rimanere nella relazione di amore che sostiene l'esistenza umana, le dà senso e grandezza». Ecco dunque perché, ci dice Francesco, alla richiesta dei discepoli di imparare a pregare, Gesù «non dà una definizione astratta della preghiera, né insegna una tecnica efficace per pregare ed "ottenere" qualcosa», ma invita «a fare esperienza di preghiera, mettendoli direttamente in comunicazione col Padre, suscitando in essi una nostalgia per una relazione personale con Dio, con il Padre». «Nella preghiera ci sono distrazioni, ma tante volte sentiamo come la voglia di fermarci sulla prima parola: "Padre", e sentire quella paternità del cuore». Un po' come i bambini di 3 anni che cominciano a domandare ai genitori cose che non capiscono: «Nella mia terra si chiama "l'età dei perché", credo che anche qui sia lo stesso... Quando il papà comincia a spiegare il perché loro arrivano con un'altra domanda senza ascoltare tutta la spiegazione. Cosa succede? I bambini si sentono insicuri e tante cose cominciano a capirle a metà. Vogliono soltanto attirare su di loro lo sguardo del papà. Se noi nel "Padre Nostro" ci fermeremo alla prima parola faremo lo stesso: dire Padre, Padre... per attirare lo sguardo». È in questa paternità che sta «la novità della preghiera cristiana!», che «è dialogo tra persone che si amano, un dialogo basato sulla fiducia, sostenuto dall'ascolto e aperto all'impegno solidale... Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto». È un invito alla «ardente perseveranza». Qualcosa da non dimenticare quando perdiamo la fiducia o la voglia di pregare.
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