giovedì 5 luglio 2018
Anche in Italia constatiamo, proprio in questi giorni, tentativi di rovesciare la connotazione prevalentemente negativa della parola "populismo", nei suoi numerosi significati, facendo leva sulla premessa culturale alla base di gran parte dei fenomeni che essa indica, cioè l'opposizione tra le élites e il popolo. Non mi pare sufficiente, per contrastare quei fenomeni e le loro conseguenze sulla convivenza civile, ribattere che una tale opposizione è essa stessa fallace, perché esistono élites populiste ed élites non populiste, e perché la nozione di popolo come soggetto indifferenziato è priva di significato reale: ciò che quella opposizione comunica è infatti un messaggio rivolto non a un generico popolo, ma a quanti sono o si percepiscono insoddisfatti, arrabbiati, marginalizzati o, più semplicemente, impauriti, e ai quali dunque importa poco se chi la predica faccia parte egli stesso della cosiddetta élite.
Piuttosto che la schermaglia di parole, sembra dunque utile una migliore messa a fuoco del terreno in cui quelle insoddisfazioni e quelle paure si radicano, anche per valutare quanto in esse vi sia di reale e quanto di percepito. Da trovare, in primo luogo, in politiche pubbliche solidali e tali da non fare sentire nessuno come dimenticato e non rappresentato. In secondo luogo, in un'azione culturale volta a migliorare la consapevolezza concreta dei problemi, mediante la conoscenza dei dati reali e non di quelli propagandati: il tutto al fine di permettere a ciascuno di pensare con la propria testa e di agire di conseguenza, che è poi il vero antidoto alle tentazioni populiste, nel senso di riduttive della realtà delle cose.
Ciò vale anche per il cosiddetto populismo penale, cioè l'insistenza a senso unico sulla pena detentiva e la svalutazione di strategie di intervento diverse, pur se maggiormente rispettose dei princìpi costituzionali. Antidoto a esso è la migliore conoscenza del funzionamento delle istituzioni, anche carcerarie, inclusi i dati sulla reale efficacia delle politiche del tipo "dentro e getta le chiavi".
Maggiori criticità mi sembra comporti parlare di populismo giudiziario, fenomeno che ricorrerebbe quando il magistrato, in genere quello penale, si pone come autentico rappresentante e interprete delle aspettative di giustizia del popolo. Qui siamo in presenza di una forzatura della corretta divisione dei poteri, talvolta incentivata dall'assenza o dall'insufficienza delle risposte della politica e dell'amministrazione. Certo, il magistrato deve evitare di lasciare sullo sfondo il secondo comma dell'art. 101 Cost. (i giudici sono soggetti soltanto alla legge) e di privilegiarne il solo primo comma (la giustizia è amministrata in nome del popolo); ma la risposta della politica e dell'amministrazione non deve mancare, e non può affidarsi alla babele delle parole.
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