giovedì 12 luglio 2018
Che vi sia, di tanto in tanto, un ritorno di fiamma della tentazione, da parte della politica o di alcuni settori di essa, di attaccare la magistratura quando emette decisioni sgradite, non stupisce. Si tratta di un fenomeno, non soltanto italiano, legato all'antica aspirazione, in capo al detentore del potere, ad agire libero da vincoli esterni, sciolto da essi. La caratteristica di uno Stato di diritto, accolta (almeno in via di principio) presso la totalità delle democrazie contemporanee, è però proprio quella di bilanciare il potere politico con istituzioni di garanzia, tra le quali l'esistenza di una magistratura autonoma e indipendente. Stando così le cose, alcune polemiche di questi giorni potrebbero essere tranquillamente archiviate. Da esse, tuttavia, è emerso un profilo che forse non deve passare sotto silenzio, o rimanere rubricato come mero folklore. Mi riferisco alla distinzione, sottolineata da uno degli attori di tali polemiche, tra le cose che si possono dire ai propri elettori e quelle che non si devono dire in sedi istituzionali, in quanto "sconvenienti". Ora, delle due l'una. O quelle cose sono falsità o palesi forzature della realtà (ad esempio, che la generalità dei magistrati, renda le proprie pronunce in relazione a simpatie politiche, o correntizie), e allora non vanno dette mai, salvo pensare che al "popolo" si possano dire falsità o palesi forzature. Oppure chi le dice ne è davvero convinto, e dunque dovrebbe essere in grado di sostenerle, con argomenti validi, in qualunque sede. Così però non è andata, anzi si è sottolineato che vi sia un discorso alla piazza e uno nelle istituzioni: una doppiezza, insomma. Ma la "doppiezza" non venne per molti anni, nel primo tempo della nostra vita repubblicana, imputata a un noto leader della sinistra italiana? Quello dell'indipendenza della magistratura, reale e percepita, è però tema che va sempre rinnovato e irrobustito, specialmente in tempi di disincanto e di diffidenza come quelli che attraversiamo. Sotto questo profilo, è dunque molto importante che le componenti dell'Associazione nazionale magistrati (le cosiddette "correnti") riescano a valorizzare sempre di più, in modo trasparente, le proprie specificità in ordine alla cultura della giurisdizione, rendendo ancora più evidente, all'interno e all'esterno, quella funzione di separazione-garanzia tra i diversi poteri dello Stato. E dunque l'augurio ai magistrati neo-eletti al Csm, in seguito alle elezioni i cui risultati dovrebbero essere resi noti in questi giorni (e ai non togati che il Parlamento in seduta comune si accingerà a votare dalla prossima settimana), è quello che sappiano parlare allo stesso modo con i colleghi e nelle istituzioni, così che tra istituzioni e società possa esservi, se non identità, almeno coerenza e continuità. Nessuna doppiezza, dunque, ricordando l'ammonimento: il vostro parlare sia "sì, sì; no, no".
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