domenica 1 luglio 2012
Un contrattempo, in ritardo, qualcosa non ha funzionato nella catena di relazioni che rendono possibile un operare già definito e non c'è niente da fare. Aspettare. Potrei mettere mano alla pila di libri accatastati in attesa ma sarebbe un po' sciupare una giornata tanto bella che nel solo camminare, guardarsi intorno, può trovare la propria realizzazione. M'avvio verso i due borghi d'alta valle, non è un'escursione turistica, ad attrarmi non è la bellezza del paesaggio in cui sono immerso, un paesaggio conosciuto e frequentato negli anni, sono le possibili connessioni con il mio nuovo operare: sentieri, mulattiere, guadi, tempi di percorrenza, pascoli e fonti; quali ispirazioni trarne, quale possibile giovamento. Un intrecciarsi di pensieri e ogni pensiero segmentato in una triade temporale che ne contempla la complessità; ciò che è stato: una civiltà del vivere; ciò che è: l'abbandono; ciò che potrebbe essere: una vaga speranza più che sufficiente ad un concreto impegno quotidiano. Le piccole storie degli uomini nei secoli a farmi compagnia. Una sottile striscia d'asfalto, unico segno del moderno, s'inerpica con secchi tornanti in una boscaglia intricata di rovi che l'avvolge e la sta sminuzzando; più in alto s'apre il castagneto incolto e in rovina ma ancora delimitato da muri e muretti ben più resistenti dell'asfalto allo sgretolare del tempo. Al limitare del bosco, sotto la parete di groppi, 30 case saldate a cumulo attorno la chiesa che le protegge. Pietre su pietre murate sulla roccia, grigio su grigio, macchie di rosso dei tetti, nel verde, nel blu dipinto di blu. Solo il rumore dell'acqua, sgorga dalla fontana s'allarga nell'abbeveratoio e scorre. Un camminamento circolare tra scalini e scalette, muri e portoni a conservare aie lastricate. Un terzo delle case sono ben salde nel tempo, un terzo crollate o a rischio, un terzo ristrutturate. Ognuna racconta una storia e insieme raccontano un mondo; qualcuna è uno specchio che invita a riflettere sulle proprie pochezze. In mezzo ad un'aia: un ovoo, alluso sciamanico-buddista, cumulo tondeggiante di sassi; un gesto estetico magico-rituale senza magia e senza rito, puro esotismo; un bisciaio direbbe mia nonna. Un portone, massiccio ed oliato, è socchiuso su una grande aia e mi viene voglia di chiuderlo immaginando una dimenticanza ma nitida, in un silenzio splendente, una voce femminile, anziana e pacata, risuona: - ciao, Nin, non starte a preoccupar sto bene, proprio bene. Ciao, ciao - click, fine di una telefonata. Non so localizzare il punto da cui arriva, sorrido e m'allontano, non voglio disturbare. Silenzio. Nessuna macchina, nessun rumore, nemmeno l'abbaiare di un cane. Su un uscio un cartello: vendesi. M'accomodo sul muretto della chiesa, un filare di rose: gialle, bianche, rosse, ben curate, potate e concimate, racconta una devozione schietta, antica; m'accendo una sigaretta, mi godo il mondo, felice di stare quaggiù; quassù? Scendendo canto il Te Deum e visto che non mi manca il tempo e non voglio sentirmi in debito canto anche il Salve Regina con le Litanie. E' come vivere su un'isola deserta, vivere sui monti; i borghi come piccoli porti a cui approdano le macchine, le strade: rotte obbligate. Toccata e fuga. (continua)
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