venerdì 9 aprile 2004
Hanno crocifisso il mio Signore e non disse una parola di lamento, non una parola, non una parola, non una parola. L'hanno inchiodato alla croce e non disse una parola di lamento. Gli trafissero il costato e non disse una parola di lamento. Il sangue gli sgorgò zampillando, reclinò il capo e morì e non disse una parola di lamento, non una parola, non una parola, non una parola. Ascolto un disco di spirituals afro-americani. Fatico a seguire l'inglese venato di forme popolari, ma non ho dubbi nel trascrivere la sostanza di una poesia litanica (molto più reiterata rispetto alla mia citazione) dedicata alla crocifissione. Martellante e dolce al tempo stesso è la continua ripetizione: «Non una parola, non una parola"». Certo, Gesù spesso tace durante le ore della tortura e il suo silenzio crea sgomento, contrasta con l'urlo di dolore che da secoli sale dalle bocche dei sofferenti della terra. Ma il cantore americano e il suo coro non hanno del tutto ragione. Certo, il Cristo di Giovanni è solenne e glorioso nella sua passione e nel suo "dare lo spirito", così come pacate e serene sono le sue ultime parole secondo Luca: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito». Tuttavia in Matteo e Marco Cristo non solo grida: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» ma ha una morte suggellata da un urlo: «Dando un forte grido, spirò». A prima vista sembrerebbe una "brutta morte". Eppure è proprio questa la sua fraternità con noi. Nel dolore estremo, nella morte lacerante. Solo così è con noi e in noi, il Dio fatto veramente carne. Come cantava il poeta Giovanni Testori: «Cristo voce/ Cristo croce/ Cristo santo!».
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