Non sempre tecnica significa progresso
venerdì 15 maggio 2020
Quando si parla di tecnica di solito spunta subito il nome di Martin Heidegger o di uno dei suoi innumerevoli seguaci. Ma Heidegger, filosofo dell’”essere”, mi sembra che attiri soprattutto i pensatori più astratti, quelli che si accontentano, come lui, di usare il verbo “essere” solo all’infinito o al participio presente (”ente”) evitando modi, tempi e persone come “noi siamo”, “voi sarete”, “lei era”, “voi sareste”, “tu fosti”, eccetera. In questo caso l’essere fa sparire gli individui, le società, le differenti culture, la storia. In realtà, per studiare la tecnica è più utile una storia circostanziata delle varie tecniche che non una filosofia generale dello strumento tecnico che finisca per trascurare quantità, qualità e limiti del loro uso, sia quando si tratta di mezzi che quando si tratta di fini. Oggi e già nel secolo scorso, è stato notato da vari critici della cultura moderna che i mezzi si stavano trasformando in fini. In effetti stiamo scambiando lo sviluppo tecnico per progresso umano. Uno dei più interessanti e ormai più trascurati storici della tecnica in rapporto alla società è l’americano Lewis Mumford, i cui libri mi sembra che siano spariti dalla circolazione, anche perché, credo, l’enorme crescita numerica degli accademici e della loro produttività lascia non molto spazio a importanti classici del passato. Quando si discute di futuro, vedo che si parla subito di robotica e di intelligenza artificiale; ma è un secolo che l’argomento è all’ordine del giorno. Di “civiltà delle macchine”, di cibernetica, di cervello e di automi si parlava già molto fra anni cinquanta e sessanta del Novecento, per esempio nell’ambiente della Olivetti, alla quale gli americani della Ibm scipparono dolosamente il primato nella realizzazione dei computer. Nel 1967 Il Saggiatore pubblicò un ottimo volume di Mumford intitolato Il mito della macchina che partendo dallo studio antropologico dell’intelligenza umana, passando per il Medioevo e per Leonardo Da Vinci arrivava alla “megamacchina” organizzativa e tecnica in cui si incontrano civiltà complessiva e rapporto fra scienza e produzione. Nel prologo Mumford arrivava subito a dire che «l’attuale eccessiva fiducia nella tecnica è dovuta a un’interpretazione radicalmente sbagliata dell’intera storia umana (...) se l’abilità tecnica bastasse da sola a identificare e a esprimere l’intelligenza, l’uomo sarebbe stato per molto tempo assai più indietro di altre specie» come le api, le formiche, i castori... Di Mumford si è accorto presto un sociologo come Serge Latouche, che nel 1995 pubblicò un libro intitolato La megamacchina (Bollati Boringhieri) che si apre con queste parole: «Lewis Mumford ci ha insegnato che la macchina più straordinaria inventata e costruita dall’uomo non era altro che l’organizzazione sociale». Ora sembra proprio che il problema sia correggere la megamacchina del capitalismo mondiale, nel quale i mezzi impediscono di riflettere sui fini.
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