Nel suo straordinario romanzo Gita al faro, Virginia Woolf condensa in un personaggio inventato una riflessione su cosa sia rappresentare, raffigurare, descrivere, e prima ancora, vedere. Le meditazioni della pittrice Lily Briscoe su come realizzare il ritratto della signora Ramsay (luminoso personaggio in cui Virginia seppe trasporre la sua struggente nostalgia della madre morta) riguardano criteri che presiedono al guardare, alla visione. Insieme a un elogio della distanza e della centralità di ogni prossemica («tutto dipende da quanto gli altri sono vicini o lontani»), la giovane artista Briscoe riflette su quanto sublime e comune si affianchino convergendo nella realtà di quel che viene colto dallo sguardo. «Mettersi al livello dell’esperienza comune», ma senza mai abbandonare il sentire, perché è grazie alle percezioni del cuore che la stessa realtà si ammanta di “estasi” e “miracolo”. Tra le altre, la cosa interessante è come lo sguardo della romanziera si identifichi con quello del personaggio fittizio della pittrice. Come ha scritto genialmente Eric Auerbach, gli stessi occhi di Virginia Woolf non sono «occhi che sanno, ma occhi che dubitano e domandano»: un guardare di demiurgo, che nel mentre si cala negli occhi delle sue figure inventate affina la trasfigurazione.
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