venerdì 29 luglio 2011
Se ho visto più lontano, ho potuto farlo stando in piedi sulle spalle di giganti.

«Siamo nani sulle spalle di giganti» è una formula che risale a due autori medievali, Bernardo di Chartres e Giovanni di Salisbury. È interessante come essa sia ripresa nella lettera che il 5 febbraio 1675 il grande Newton indirizza a Robert Hooke. L'immagine dello standing on the shoulders of giants, come si ha nel testo inglese, è molto efficace e contempla due dimensioni diverse e fin opposte. Da un lato, c'è la consapevolezza del valore insostituibile della tradizione, ossia dell'eredità culturale e spirituale che si riceve. Se si dovesse sempre cominciare da zero, stando su una vuota tabula rasa, saremmo ancora al neolitico… D'altro lato, però, c'è la fiera coscienza di saper vedere molto più avanti, proprio perché stiamo in piedi sulle spalle dei predecessori e vediamo con maggiore lungimiranza. Umiltà e fierezza devono, quindi, contemperarsi nel progresso della scienza.
A questo punto vorremmo aggiungere una nota proprio sul progresso, che è il risultato di quella prospezione condotta dall'alto, andando oltre le passate conquiste. Sappiamo tutti quanto esso sia inevitabile e decisivo, anche perché tutti ne usufruiamo (pensiamo solo agli esiti della ricerca medica). Tuttavia, è anche vero che il progresso totalmente autonomo, affidato solo ai protocolli della tecnica e disgiunto dall'etica, può esploderci tra le mani. Per questo, il vero scienziato dev'essere anche un po' umanista e non ragionare solo in termini operativi secondo il ritmo binario dell'«è possibile / non è possibile» tecnicamente, ma pure secondo i parametri e le domande della moralità e della dignità umana. Karl Kraus, nei suoi Detti e contraddetti (1909), non esitava a ricordare che «l'evoluzione della tecnica è arrivata al punto di renderci inermi di fronte ad essa».
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