sabato 25 marzo 2023
Era timida, molto minuta, per indole taciturna e discreta. Girava il mondo con due macchine fotografiche Leica, in punta di piedi, come per non disturbare nessuno ma capace di arrivare dappertutto e lì famelica guardare, carpire, cogliere, volti soprattutto, e quanto di ogni volto sfugge alla presa delle parole, e le oltrepassa. Non ricordato quanto meriterebbe, quello di Sebastiana Papa è stato lavoro fotografico militante, un impegno estetico la cui tensione non sarebbe sbagliato definire spirituale. Viaggiava sola, instancabilmente curiosa, quasi in un pellegrinaggio, con un occhiuto e cocciuto concentrarsi su mondi distanti dalle narrazioni consuete. Le donne del monachesimo, gli anziani: ambienti e frangenti tesi verso mondi sempre più densi del visibile. Mai appagata dalle immagini, sempre protesa su nuove domande. La tensione laica ma spirituale di Sebastiana Papa, più di tutti la capì lo scrittore israeliano David Grossman, quando scrisse in una breve prefazione che le fotografie risvegliavano in lui un senso misterioso di appartenenza. «Qualcosa di non legato a un popolo, un Paese, una razza, bensì alla grande famiglia umana», Grossman ha scritto; e proprio a quella grande famiglia Sebastiana Papa con la tenacia del suo occhio acutissimo desiderava, scatto dopo scatto, appartenere. © riproduzione riservata
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