sabato 1 aprile 2017
Negli incontri di formazione dedicati all'ascolto una delle riflessioni più intriganti riguarda il rischio di farsi guidare dai pregiudizi quando si tratta di comprendere quali scelte attuare. Una sfida che interessa da vicino chi è responsabile della gestione delle persone: a volte c'è chi parteggia per un lavoro fatto con metodo e con gli "strumenti" di cui spesso si dotano le grandi multinazionali, in altri casi si affida il risultato soltanto alla propria "umanità". Di fatto sono giudizi parziali perché la vera sfida è saper cogliere l'efficacia di un lavoro fatto con metodo ma arricchito dalla sensibilità, così come è bene fare quando si incontra l'umano.
Ne parlo con una persona che se ne intende, Alberto Busnelli, da anni HR manager di Basf Italia, una multinazionale presente in tutto il mondo con circa 120.000 dipendenti e una tradizione importante nell'area delle risorse umane. «Faccio questo lavoro con passione da tanto tempo – mi racconta Alberto – e mi rammarica vedere come ancora oggi tanti lavoratori limitino l'uso del proprio talento e della propria energia, finendo per limitare così anche sé stessi. Mettere in gioco questa parte distintiva della nostra personalità significa incontrare la propria unicità e lavorare meglio grazie alle competenze innate che ciascuno di noi possiede. Proprio ciò di cui anche l'azienda oggi ha bisogno». E da dove serve partire, domando ad Alberto, visto che questa attenzione potrebbe coniugare le esigenze della persona e dell'azienda? «È un problema culturale che ci trasciniamo da anni: le persone in azienda non sono ancora abituate a divenire artefici del proprio sviluppo personale e professionale, ma anche le aziende non sempre agevolano questo percorso e privilegiano la ricerca della persona di "talento" piuttosto che il "talento" che c'è in ogni persona. E così facendo si sprecano reciprocamente un sacco di opportunità e il famoso "capitale umano" spesso giace inutilizzato. A noi Basf ha chiesto, con la consueta ricchezza di strumenti delle multinazionali, di lavorare in questa direzione e noi abbiamo creduto a questa possibilità e aggiunto al metodo il nostro desiderio di metterci al servizio delle persone».
Sulla carta sembra un obiettivo semplice da capire e forse anche da perseguire, ma in concreto cosa serve fare, voi cosa avete fatto? «Abbiamo lavorato da subito su due dimensioni: la prima è la certezza che ciascuno di noi migliora se facciamo l'esperienza di cosa significhi usare i propri talenti nella quotidianità e ne tocchiamo con mano i risultati positivi. La seconda è che questo avviene solo grazie ad una relazione che si pone al servizio della crescita di chi ci lavora accanto. Questo per noi ha significato tante cose, ad esempio strutturare percorsi di sviluppo dei collaboratori gestiti da ogni singolo responsabile ma supportati quotidianamente dalla direzione HR attraverso delle attività di valutazione e formazione mirate. Abbiamo dato vita nei siti produttivi a delle "comunità di pratica", team di lavoro che anche a distanza si "divertano" a lavorare meglio, facendo crescere le conoscenze e le competenze reciproche grazie anche ai supporti messi a disposizione dall'azienda. Abbiamo organizzato attività di volontariato in alcune realtà no profit perché ci aiutassero a vivere la bellezza dello stare assieme in modo diverso e con una progettualità diversa, e così facendo paradossalmente a capire meglio la nostra attività di ogni giorno». Capire quanto la vita sia "una soltanto" aggiungo io, e quanto sia positivo spendere ogni giorno il tempo che ci regala in tutto ciò che facciamo grazie a tutto ciò che siamo.
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