martedì 1 aprile 2003
Dio creò l'uomo e, trovando che non era abbastanza solo, gli diede una compagna perché sentisse più acutamente la sua solitudine. Sono due volumi intitolati Tel quel ("Tal quale") e raccolgono scritti composti in occasioni differenti dal poeta e saggista francese Paul Valéry (1871-1945). Li sfoglio in una vecchia edizione e trovo questa mordace ma non assurda nota sulla solitudine. Dico non assurda perché, a prima vista, la frase va contro la logica e lo stesso dettato biblico: non è forse vero che la donna che l'uomo incontra come dono divino è definita «un aiuto che gli sia simile», letteralmente «che gli stia di fronte» in un dialogo pieno e perfetto? In realtà, sappiamo che spesso l'incontro con un'altra persona non solo non spezza la nostra solitudine ma la acuisce, tant'è vero che la sapienza popolare ha coniato il proverbio «Meglio soli che male accompagnati». Ci sono convivenze che si trasformano in un incubo, creando una forte nostalgia dell'essere soli. Ci sono contatti interpersonali che generano quasi scariche di elettricità, in una sorta di tensione permanente. Ci sono folle che si muovono a branchi senza per questo avere un minimo di comunicazione. Certo, «guai a chi è solo!», come dice il sapiente biblico Qohelet, ma guai anche a chi ha accanto una persona petulante e prevaricante. Proprio per questo non si deve ricorrere al matrimonio come automatico rimedio alla solitudine: costruire una comunione delle anime e delle menti è un'impresa ardua e dev'essere perseguita con pazienza e senza illusioni.
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