giovedì 1 giugno 2006
Mai. Una parola tremenda. La più tremenda di tutte le parole usate dagli uomini. Non ci sono più «forse», né «chissà?». Io non salirò mai sull'Everest. Non ci saranno tappe intermedie né montagne grandi e piccole. Non ci sarà nulla. Il libro, Bianco su nero (Adelphi 2004), si compone di 41 brevi scene, affidate a una scrittura asciutta, sobria, restia a ogni sentimentalismo. Eppure la storia è drammatica: un ragazzo paralizzato negli arti, tranne che nelle due dita con cui scrive, viene abbandonato in un orfanotrofio sovietico. La madre spagnola comunista è esule a Mosca durante il franchismo: ha avuto Rubén Gallego, l'autore del libro, da un compagno venezuelano ed è proprio questo figlio a raccontare la sua vicenda dalla quale uscirà vincitore perché potrà laurearsi, sposarsi, avere due figlie e ritornare in Spagna. È per questo che ha grande significato la considerazione sopra citata. «Mai» è l'avverbio più pericoloso perché scandisce la sconfitta, l'inibizione, lo scoraggiamento, l'inerzia. Purtroppo si tratta di una parola che spesso suggella tante vite, anche di giovani, sopraffatte dal lasciarsi andare alla deriva (emblematica è la caduta nella droga dalla quale spesso non si vuole risalire, convinti di un «mai» fatto di impossibilità). «Mai dire mai», afferma una battuta popolare: eppure in tante cose abbiamo pronunciato quella parolina così tremenda e abbiamo perso amori, abbandonato attività, dimenticato dignità, spento le forze. Ritroviamo, allora, la capacità di affidarci ad altri avverbi come «chissà?» e «forse», riprendendo a lottare e a sperare in ciò «che non si può esprimere a parole - come scrive ancora Gallego - non si calcola al computer e non si misura».
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