domenica 29 marzo 2020
Madre: parola meravigliosa e terribile, consolatoria e panica, familiare ed estranea. Figura invocata e maledetta, generosa e possessiva, necessaria e rischiosa. Nome di tutti il più bello; e assoluto. Come la vita. A colei-che-dà-la-vita non si cessa mai di chiedere, senza avvedersi che un cono d'ombra minaccia costantemente la luminosità dell'evento generativo. Madre significa non solo doppia identità, ma anche identità perduta e vita sospesa; madre significa non solo necessità ma anche disarmonia di due alterità; madre significa non solo plusvalore affettivo e sintonia col mondo, ma anche forma svuotata e solitudine. Una sorta di territorio non protetto, di oltre che solo una madre – o semplicemente una donna – può conoscere e osare. Stanno insieme desiderio e rifiuto, amore e odio di un figlio: un'ambivalenza tutta a carico di questa creatura creatrice, la quale testimonia e alimenta il deinón, “il tremendo e meraviglioso” di questa vita. Forse è tempo di una nuova pietas: prendersi cura delle madri. Rassegnati a non capire ciò che avviene tra una madre e un figlio, e prima ancora tra un uomo e una donna, come recita la saggezza dei Proverbi (30, 18-19): «Tre cose mi sono difficili, /anzi quattro, che io non comprendo: /il sentiero dell'aquila nell'aria, /il sentiero del serpente nella roccia, il sentiero della nave in alto mare, /il sentiero dell'uomo in una giovane».
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