Ma perché sono scomparsi i poeti intellettuali come Valéry?
sabato 16 luglio 2011
C'erano una volta i poeti intelligenti. Perfino poeti intellettuali. La loro poesia nasceva da una minuziosa, analitica, profonda consapevolezza dei processi mentali. Quel "c'era una volta" ha occupato un preciso periodo della nostra storia culturale, un periodo che ha inizio con Novalis, Coleridge, Leopardi, Baudelaire, passa attraverso la più classica modernità novecentesca di Valéry, Rilke, Machado, Eliot, Majakovskij, Brecht, Benn, Borges, Saba, Montale, Auden (straordinari saggisti in versi e in prosa) e sembra concludersi con poeti nati negli anni Dieci e Venti come Octavio Paz, Fortini, Zanzotto, Pasolini, Enzensberger.
In questa lunga e appassionante vicenda si notano una serie di affinità e continuità: disagio sociale, eccezionalità di pensiero critico, dubbi mai superati sulle possibilità comunicative e conoscitive della poesia. Non che nei secoli precedenti l'intelletto mancasse ai poeti: era connaturato alla poesia e la poesia non aveva bisogno di fondarsi e giustificarsi in un atto critico. Ma non è un caso se Dante, il più intellettuale dei poeti occidentali, sia diventato di nuovo un modello proprio nel Novecento.
Queste semplici osservazioni nascono dalla lettura di un saggio di Paul Valéry, Ispirazioni mediterranee, ora proposto dalle edizioni Mesogea a cura di Maria Teresa Giaveri. Poche pagine in cui si può studiare da vicino il funzionamento poetico-intellettuale della mente di Valéry, il più audacemente cartesiano dei poeti moderni. In apparenza un poeta astratto, in realtà sia astratto che sensoriale. Solo che i sensi di Valéry, nato a Sète, sul Golfo del Leone, si sono esercitati nella meditazione sui tre oggetti percepibili più grandiosi e universali: il mare, il cielo, il sole. È da queste entità sovrane, al confine fra il visivo e il mentale, che nasce in Valéry il senso della misura e del limite, caratteristico della cultura mediterranea: la cultura della regione forse più favorevole all'esistenza umana.
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