domenica 20 maggio 2012
La primavera è ormai avanzata, in Francia François Hollande ha vinto le elezioni e a Washington Barack Obama ha «affrontato senza reticenze il tema difficile dei matrimoni omosessuali». Tanto basta a Stefano Rodotà per proclamare su La Repubblica (sabato 12) «la nuova stagione dei diritti», che poi si riduce a un minestrone in cui versare anche «la sentenza della Cassazione sui matrimoni gay», che lui definisce «un dono dell'Europa», perché «ha potuto mettere in evidenza il venir meno della "rilevanza giuridica" della diversità di sesso nel matrimonio» e – non si vede come c'entri – «l'estensione alla Chiesa dell'obbligo di pagare l'imposta sugli immobili». Evidentemente, come quelle atmosferiche ed economiche, anche le stagioni giuridiche e tribunalizie sono in crisi. Accade a certi esseri viventi animali o vegetali di produrre, in determinate condizioni di inquinamento ambientale, frutti o cuccioli palesemente anomali. Così anche per gli esseri umani. Esempio: una iniziale stagione dei "diritti civili" produsse, 35 anni fa, l'aborto legale. Ora siamo alla insignificanza giuridica del sesso, anche se (o forse per questo) ormai si respira un po' dappertutto aria di pansessualismo in un clima in cui molti si fanno Donchisciotti dell'omosessualità come fonte di diritti. Fonte, però, di bassa qualità, perché le mancano del tutto i doveri, l'altra faccia dei diritti. La parola "doveri" non esiste, infatti, nel lungo articolo di Rodotà, dove c'è un solo "obbligo": quello, guarda caso, della Chiesa di pagare l'Ici (vecchio ritornello di bugie). Ma stiamo parlando dei "diritti civili", quelli generati dalla fecondazione artificiale tra le mutevoli stagioni culturali dei radicali e le passeggere antropologie della ormai sterile Sinistra. Questi "diritti", esaminati uno per uno, si mostrano tutti opposti ai diritti umani. Solo due esempi: l'aborto contro il diritto alla vita dell'abortito, i matrimoni gay contro il diritto degli eventuali figli a un padre e una madre autentici, cioè a una famiglia vera. Non certamente quella di un auspicio infilato in una sentenza della Cassazione.FORTE, MA DEBOLEQuello di Umberto Veronesi è «pensiero forte», afferma sul settimanale Grazia (mercoledì 9). È vero. Il professore sostiene che «la "pillola dei 5 giorni dopo" non è un farmaco abortivo» e dimostra che invece lo è. Basta tradurre la sua antilingua in italiano. Il professore scrive che all'«ovocita fecondato» viene impedito l'«attecchimento in utero». E siccome «per l'Organizzazione Mondiale della Sanità la gravidanza ha inizio quando l'ovulo fecondato si impianta nell'utero», la sua espulsione non è un aborto. Sennonché l'«ovulo fecondato» non è più un ovulo, ma uno zigote poi morula, blastocisti, eccetera, cioè un nuovo individuo umano nei suoi primi stadi. La sua essenza non dipende dall'impianto né dalla "rimozione". Invece la condizione di gravidanza riguarda la donna: se, attecchita o no che sia, la nuova creatura subisce la "rimozione", questa è, in ogni caso, un aborto. SCIOCCHEZZE IN PIÙScrive Gian Enrico Rusconi, professore di Scienza politica a Torino, che «il "credere" e il "non credere" si riferiscono ai contenuti di fede». Ciò «suggerisce che qualcuno che "crede" ha qualcosa in più (sottovoce si intendono "i valori") di qualcun altro che "non crede". Naturalmente è una colossale sciocchezza». Va bene: allora noi che crediamo penseremo che anche chi non crede (nel modo di Rusconi) ha qualcosa di più. Sottovoce intenderemo le sciocchezze.
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