mercoledì 15 giugno 2016
Il pelagianesimo, cioè la presunzione di salvarsi con le sole proprie forze umane, senza l'aiuto della grazia, è un'eresia antica tuttora serpeggiante, che si manifesta anche nei più o meno consapevoli tentativi di separare le due facce dell'unico precetto dell'amore (verso Dio e verso gli uomini), anche col pericolo – spesso denunciato da papa Francesco – di trasformare la Chiesa in un'organizzazione umanitaria e assistenziale.Ma chi era Pelagio? Un piccolo libro che studia un aspetto del suo pensiero è stato recentemente pubblicato da Castelvecchi (pp. 96, euro 13,50) con il titolo Cristianesimo o ricchezza, che forza un po' il più generico titolo originale De divitiis («Delle ricchezze»). Il breve trattato è stato curato e tradotto da Anna Maria Sciacca, e il rettore della Pontificia Università Lateranense, monsignor Enrico dal Covolo, l'ha prefato convintamente.Pelagio, irlandese o britanno, nacque tra il 354 e il 360, soggiornò a lungo a Roma, e morì in Palestina tra il 422 e il 427. Era un dottore laico, retore eccellente, di vita austera. I cardini della sua dottrina sono: che la salvezza è opera delle capacità naturali dell'uomo; che il peccato originale non si trasmette ereditariamente; che la grazia non è un dono divino e non è necessaria. Come si vede, ce n'è abbastanza da essere tacciato di eresia. Particolarmente allarmato fu sant'Agostino, che scrisse ben 17 opere contro Pelagio, opere determinanti per la condanna definitiva del pelagianesimo nel concilio di Efeso del 431.Nel De divitiis si apprezza la capacità argomentativa di Pelagio, quando risponde brillantemente alle obiezioni che egli stesso si pone, attribuendole a un immaginario «Tu» («Tu mi dirai», «Dunque tu»...). Ed è anche interessante il suo destreggiarsi tra la scuola alessandrina e la scuola antiochena nell'interpretazione della Scrittura, optando per l'interpretazione allegorica (alessandrina) dell'Antico Testamento, e storico-letterale (antiochena) per il Nuovo. Ed è l'interpretazione allegorica a permettergli di superare la constatazione che Abramo, Davide, Salomone erano ricchi.Invero, l'invettiva di Pelagio è più contro l'avarizia (l'attaccamento egoistico ai beni) che contro le ricchezze, «le quali non sono esse stesse il peccato», ma semmai occasione di peccato. Ed è divertente il suo ragionamento sulla parabola della cruna e del cammello, adducendo tra l'altro che Gesù non intendesse propriamente parlare di cammello, ma di gomena navale, peraltro analogamente impossibilitata ad attraversare la cruna di un ago. Ed ecco come elimina l'obiezione: «Tu mi dirai: Gesù ha temperato la difficoltà della prima affermazione con la successiva, anzi l'ha eliminata del tutto dicendo: "Le cose impossibili agli uomini, sono possibili a Dio". Certo, è possibile non solo accogliere in cielo i ricchi con tutti i loro beni, bagagli e ricchezza, ma anche i cammelli. Se si discute delle possibilità di Dio, non si troverà nessuno messo fuori dal suo regno, perché non si trova nulla di impossibile a Dio». Affermazione, tuttavia, che forse Benedetto XVI troverebbe più islamica che cristiana (Discorso di Regensburg). Realistico ed efficace è Pelagio quando afferma che all'origine delle ricchezze quasi sempre ci sono truffe, malversazioni, delitti, mentre «non giudichiamo riprovevole quella ricchezza che, accumulata senza alcunché di male, è spesa nelle buone opere, per cui nessuna occasione o necessità di peccato è fornita a coloro che la possiedono».In ogni caso, è utile esaminarci spesso sul nostro rapporto con i beni terreni, tanti o pochi che siano. È giusto non disperdere i patrimoni che servono a venire incontro ai bisogni dei poveri, soprattutto se non ci si limita a pur generose elemosine, ma si contribuisce a mettere in moto processi (investimenti, nuove iniziative) di utilità sociale; tuttavia un tenore vita oggettivamente agiato (fin troppo agiato) dovrebbe pur sempre far sorgere qualche scrupolo. È troppo facile elogiare le virtù del digiuno dopo un lauto pranzo.
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