giovedì 8 novembre 2018
Il mondo è uno spettacolo e noi non vediamo l'ora di guardarlo. In qualsiasi posto ci capiti di andare prendiamo posto, ci mettiamo comodi e aspettiamo che si alzi il sipario. O che cominci la proiezione, visto che è di cinema che stiamo parlando. Più che una curiosità, osservare gli altri è un istinto, e per qualcuno diventa anche un lavoro. Il fotografo Jeff, per esempio, che viaggia da un Paese all'altro in un periodo (siamo negli anni Cinquanta) in cui ancora il mondo si conosce più che altro attraverso il racconto che ne fanno pochi privilegiati. Jeff appartiene a questa élite, ma un incidente lo priva dei suoi privilegi, sia pure in via provvisoria. Costretto in casa da una gamba ingessata, si consola come può, armandosi di binocolo e di teleobiettivo. Il suo appartamento dà sul cortile di un grande condominio, basta mettere a fuoco e ciascuna delle finestre che gli stanno davanti offre rivelazioni, spesso inattese, sulla vita dei vicini. Cinema in miniatura, appunto, se non un anticipo delle odierne serie tv.
La finestra sul cortile, avete indovinato. Alfred Hitchock dirige il film nel 1954, rielaborando un racconto dello scrittore Cornell Woolrich in modo tanto personale da cancellarne quasi le tracce. Come se fossimo in una delle storie che gli piace raccontare, vicende di inganno e non di rado di violenza nelle quali lo spettatore è chiamato in causa fin dal principio. Si sa che non c'è mai un dettaglio da perdere, quando Hitchock si mette dietro la macchina da presa. Si sa che, se non altro, c'è da scoprire quale stratagemma abbia escogitato questa volta per nascondere la sua ingombrante silhouette tra un fotogramma e l'altro. In gergo queste apparizioni improvvise si chiamano "cammeo", sono poco più di un espediente tecnico, quasi un gioco tra addetti ai lavori. Ci vuole un genio per renderla una forma d'arte. In una parola, ci vuole Hitchcok.
Nato a Londra nel 1899 e morto a Los Angeles nel 1980, Hitchcock ha avuto la caratteristica di muoversi tra due mondi: l'Europa e l'America, il cinema e la letteratura, il film d'intrattenimento e la pellicola d'autore (a capirlo per primi, com'è noto, furono François Truffaut e gli altri ragazzi terribili dei Cahiers du Cinéma). A fare sintesi ha sempre provveduto il suo sguardo, capace di costringere lo spettatore a un'immedesimazione pressoché totale con il punto di vista del regista. Anche per questo, La finestra sul cortile rimane il documento più rappresentativo della sua opera, alla quale appartengono tanti altri capolavori, da Notorius del 1946 a Gli uccelli del 1963, da Io confesso del 1953 (dove emerge con più evidenza la formazione cattolica del regista) a Psyco del 1960. Film tutti memorabili, dei quali però è La finestra sul cortile a fornire la chiave interpretativa. C'è, come spesso accade in Hitchcock, un personaggio solitario (Jeff, interpretato da James Stewart), nella cui quotidianità, qui rappresentata dalla bella fidanzata Lisa (Grace Kelly), irrompe un elemento perturbante. Che cosa ci sarà dentro le valigie che il signor Thorwald (l'attore Raymond Burr) trasporta furtivamente? E come mai la comparsa di quei bagagli tanto inquietanti coincide con la sparizione della signora Thorwald? Nella Finestra sul cortile c'è un poliziotto scettico (il detective Doyle, impersonato da Wendell Corey), ci saranno colpi di scena, un magistrale inseguimento da fermo e la salvezza che arriva all'ultimo istante. C'è lo sguardo di Jeff, più che altro, che si insinua dappertutto, sempre più prossimo all'ossessione. Mezzo secolo fa era la prerogativa del cinema, adesso la perlustrazione compulsiva è alla portata di chiunque. Tutte le finestre sul cortile restano spalancate, ormai. E la nostra non fa eccezione.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: