venerdì 15 dicembre 2006
  Ho trovato una riflessione di un autore che ha lasciato scritto: «Se fossi stato davvero uno scrittore, avrei dovuto impedire la guerra». Leggendo quelle parole, subito mi sono detto: «Ma che presuntuoso!». Poi ho scoperto che quella frase conteneva una grande verità: alla guerra ci si arriva con parole su parole, parole dette a sproposito in un crescendo. Come con le parole si fa una guerra, così con le parole potremmo mettere fine alle guerre.Molti sono convinti che le parole, una volta dette, si spengono per sempre. E questo per fortuna accade a tante chiacchiere vane e insulse. Ma ci sono parole che sono come semi o come spade: possono germogliare in grano o in zizzania e alimentare o avvelenare, possono persino ferire e uccidere, lasciando una scia di odio inveterato dietro di sé. È ciò che ricorda quello straordinario scrittore bulgaro-tedesco-ebreo che è stato Elias Canetti (1905-1994) in un suo saggio dal titolo emblematico, La coscienza delle parole, pubblicato nel 1975.Sì, il linguaggio ha una sua forza dirompente. Può generare odio e guerre. Quanti " anche uomini politici " usando con stupidità parole sprezzanti e violente nei confronti di altre culture e religioni, si fanno responsabili di violenze effettive. Ma c"è, per fortuna, anche la possibilità opposta, quella del dialogo, in cui le parole costruiscono ponti di incontro. Il famoso drammaturgo franco-rumeno Eugène Ionesco gridava: «O parole, quanti delitti si commettono in vostro nome!». Ma un altro autore francese, Paul Eluard, aggiungeva: «Ci sono parole che fanno vivere e sono parole innocenti: la parola calore, la parola fiducia, giustizia, amore e la parola libertà».
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