domenica 1 febbraio 2004
Un ebreo semplice si perse in una foresta. Al tramonto si accorse di non avere con sé il libro delle preghiere. Allora si rivolse a Dio così: «Mio Signore, ho dimenticato il libro delle orazioni e ho una memoria così debole da non essere capace di pregare bene e in modo a te gradito. Eppure tu conosci tutte le preghiere degli uomini. Allora io ti reciterò le lettere dell'alfabeto e tu le ordinerai così da comporsi in preghiera». Dio disse tra sé, ascoltando quell'uomo: «Questa è l'orazione più preziosa che oggi sia salita al cielo!». Anni fa trovai in un'edicola della Victoria Station di Londra un libretto intitolato Il tesoro della sapienza giudaica. Ritrovo quel pocket ingiallito e gli occhi mi cadono proprio su questa bella parabola, una celebrazione dei puri di cuore che lodano Dio in semplicità e umiltà. Spesso noi teologi siamo tentati di guardare col sopracciglio alzato la persona che corre in chiesa ad accendere la candela, che dice le preghiere dell'infanzia, che sa solo lamentarsi con Dio e ignora cosa sia la contemplazione, l'inno di lode e la dossologia. Dobbiamo educare, certo, i fedeli a una preghiera più matura e corretta teologicamente, dobbiamo esigere che la liturgia sia il culmine della pietà e far scoprire i tesori dell'orazione ecclesiale. Tuttavia non dobbiamo dimenticare che Dio va dritto ai cuori e sa cogliere anche il respiro di fede di un uomo o di una donna che dicono a lui solo l'alfabeto della loro fiducia. E tutti noi dobbiamo imparare a lasciare nella nostra anima una piccola oasi ove possa respirare e giocare la nostra infanzia spirituale che si abbandona con spontaneità e schiettezza a Dio, «come un bimbo svezzato in braccio a sua madre» (Salmo 131, 2).
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