Le lacrime poetiche di John Cooper nel controverso regno di Elisabetta I
domenica 24 maggio 2009
Può esistere una poesia del dolore? E un principio estetico ideale destinato a celebrare i sentimenti di abbandono e struggimento che accompagnano la morte di una persona cara? Sembra nato per rispondere a questi interrogativi il disco Funeral Teares (pubblicato da Zig Zag e distribuito da Jupiter), dedicato al repertorio vocale più lirico e tenebroso di John Cooper (ca. 1575-1626), autore meglio conosciuto con il cognome italianizzato di Coprario.
Le «lacrime funerarie» del titolo sono quelle riferite alle rime e alle melodie dei lamenti e dei compianti funebri riuniti nelle antologie Funeral Teares e Songs of Mourning (Canzoni del lutto), date alla stampe nei primi anni del XVII secolo e oggi riportate a nuova luce dagli ensemble Céladon e Les Jardins de Courtoisie. Accompagnati dalle sonorità antiche e felpate di arpa, liuto e viole da gamba, il soprano Anne Delafosse-Quentin e il controtenore Paulin Bündgen ci guidano attraverso le dissonanze, i cromatismi e le audaci armonie di opere che testimoniano mirabilmente dell'universo artistico fiorito intorno alla corte di Elisabetta I Tudor in uno dei periodi più controversi della storia inglese, quando all'ombra del clima di discriminazione e di terrore che marchiava a fuoco la vita religiosa delle protestanti isole britanniche sono sbocciati i capolavori letterari dei vari Shakespeare e Spenser, ma anche l'estro e il talento di compositori del calibro di Byrd, Johnson e Robinson.
Era l'epoca in cui l'alta nobiltà si dilettava a coltivare con le lettere, con gli strumenti e con il canto l'«arte della melanconia», attraverso i suoi aristocratici riti intimamente legati alla sfera musicale, già scanditi dalle celebri Lachrimae "versate" dal liuto di Dowland e poi documentati da queste struggenti pagine di Coprario, nelle quali i grandi temi della caducità della vita, del disegno insondabile del destino e del mistero ultimo delle cose si riflettono in atmosfere sonore di grande fascino e suggestione, troppo spesso però risolte in un compiacimento estetizzante che tende a delineare gli stessi confini naturali di questi lavori, concepiti in un ambito di riferimento che non contempla minimamente la prospettiva di gioia salvifica che nasce dalla certezza della Resurrezione.
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