Carriere separate, un’idea che viene da lontano e non soltanto da destra
Dal codice Pisapia-Vassalli al ddl costituzionale Nordio. Il primo a proporre di distinguere le funzioni dei magistrati fu Flick, ministro nel primo Governo Prodi. E la Bicamerale D’Alema votò la divisione del Csm in 2 sezioni

L’idea di separare le carriere dei magistrati non è un’esclusiva del centrodestra, come potrebbe sembrare leggendo i giornali o ascoltando i dibattiti pubblici di oggi. Anzi. La radice della differenziazione tra giudice e pubblico ministero va cercata, infatti, nella cosiddetta “riforma Vassalli” del 1988, entrata in vigore l’anno successivo: l’allora ministro di Grazia e Giustizia Giuliano Vassalli, gran giurista, parlamentare e dirigente del Partito socialista italiano, già partigiano e Medaglia d’argento al valor militare, elaborò (con il contributo fondamentale di una commissione ministeriale presieduta dal professore Giandomenico Pisapia) un Codice di procedura penale - tuttora in vigore, seppure ovviamente più volte aggiornato - che segna il passaggio epocale del nostro ordinamento dal modello inquisitorio a quello accusatorio. Mentre il primo identifica il giudice con l’accusatore e si fonda, di fatto, sulla presunzione di colpevolezza dell’imputato, il secondo distingue le figure del giudice e dell’accusatore e si fonda sulla presunzione di non colpevolezza fino all’eventuale condanna definitiva. Principio sancito fin dall’origine della Repubblica, per altro, dalla nostra Costituzione all’articolo 27, secondo comma. Il Codice Pisapia-Vassalli, dunque, andava a sanare una contraddizione tra il processo penale e il dettato costituzionale. Ma sarebbe stato necessario attendere il 1999 per vedere i principi del ”giusto processo” entrare nella Costituzione, con la riforma dell’articolo 111: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo e imparziale».
Funzioni e carriere
Nel frattempo, il dibattito su come garantire davanti al giudice la parità tra le parti, cioè la pubblica accusa e la difesa dell’imputato, era già cominciato. Fu Giovanni Maria Flick, ministro della Giustizia nel primo Governo Prodi e futuro presidente della Corte costituzionale (percorso identico a quello di Vassalli), a proporre di distinguere formalmente le funzioni dei magistrati, limitando i passaggi da quella di giudice a quella di pubblico ministero e viceversa. L’idea prevedeva anche una riorganizzazione del Consiglio superiore della magistratura, per consentire una «vigilanza» distinta sulle due funzioni. In un suo recente intervento pubblico, argomentando la sua contrarietà alla riforma Nordio, Flick ha precisato: «Ho sempre pensato che fosse necessario distinguere le funzioni tra pubblico ministero e giudice e non le carriere, proprio per evitare il rischio di un Pm superpoliziotto, che in un primo momento viene esaltato ma che poi si vuole indebolire, o forse inevitabilmente assoggettare al potere politico». Fatto sta che la prima proposta di una distinzione tra giudici e Pm arrivò dal ministro di un esecutivo di centrosinistra. E andò a infrangersi, come altre successivamente, contro il muro eretto dall’Associazione nazionale magistrati in nome della tutela dell’indipendenza e dell’autonomia dell’ordine giudiziario.
La Bicamerale D’Alema
Ma, probabilmente, il momento in cui si è andati più vicino a un intervento sulle carriere (e non soltanto sulle funzioni) dei magistrati, prima della riforma Nordio, fu con la commissione parlamentare bicamerale per le Riforme istituzionali, presieduta da un esponente di spicco della sinistra di allora, Massimo D’Alema. Era il 1997. Relatore in commissione per la giustizia era il verde Marco Boato. Quest’ultimo proponeva allora una netta distinzione delle funzioni con due sezioni all’interno di un unico Csm, una per i giudici e una per i pm. E una Corte di giustizia disciplinare, elemento che caratterizza la riforma Nordio.
Nel corso dei lavori della Bicamerale D’Alema, furono presentati diversi emendamenti che prevedevano la separazione delle carriere, sottoscritti anche da esponenti del Partito democratico della sinistra come Claudio Petruccioli, Enrico Morando, Giovanni Pellegrino. Fu poi approvato un emendamento del Ppi a firma di Ortensio Zecchino, che come soluzione di compromesso prevedeva la divisione del Csm in due sezioni: votarono a favore Forza Italia, Alleanza nazionale, Ccd. Cdu, cinque popolari (oltre a Zecchino, Ciriaco De Mita, Franco Marini, Tarcisio Andreolli e l’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella), due del gruppo misto, il socialista Enrico Boselli e Giovanni Pellegrino del Pds; contrari il Pds (meno Pellegrino), Rifondazione comunista, uno del gruppo misto e un verde; astenuti due di Rinnovamento italiano, il relatore Marco Boato dei Verdi e due del Ppi (Leopoldo Elia e Gianclaudio Bressa); la Lega aveva annunciato il suo voto favorevole, ma poi non partecipò perché in precedenza non era passata la sua proposta di elezione popolare diretta dei pubblici ministeri. Quel voto, comunque, non si concretizzerà mai, come tutto il lavoro della Bicamerale, che naufragò nel 1998 in seguito alla rottura tra Silvio Berlusconi e i suoi avversari politici.
Nel corso dei lavori della Bicamerale D’Alema, furono presentati diversi emendamenti che prevedevano la separazione delle carriere, sottoscritti anche da esponenti del Partito democratico della sinistra come Claudio Petruccioli, Enrico Morando, Giovanni Pellegrino. Fu poi approvato un emendamento del Ppi a firma di Ortensio Zecchino, che come soluzione di compromesso prevedeva la divisione del Csm in due sezioni: votarono a favore Forza Italia, Alleanza nazionale, Ccd. Cdu, cinque popolari (oltre a Zecchino, Ciriaco De Mita, Franco Marini, Tarcisio Andreolli e l’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella), due del gruppo misto, il socialista Enrico Boselli e Giovanni Pellegrino del Pds; contrari il Pds (meno Pellegrino), Rifondazione comunista, uno del gruppo misto e un verde; astenuti due di Rinnovamento italiano, il relatore Marco Boato dei Verdi e due del Ppi (Leopoldo Elia e Gianclaudio Bressa); la Lega aveva annunciato il suo voto favorevole, ma poi non partecipò perché in precedenza non era passata la sua proposta di elezione popolare diretta dei pubblici ministeri. Quel voto, comunque, non si concretizzerà mai, come tutto il lavoro della Bicamerale, che naufragò nel 1998 in seguito alla rottura tra Silvio Berlusconi e i suoi avversari politici.
Quanto al Ppi, i cui eredi avrebbero poi dato vita alla Margherita-Democrazia è libertà e poi sarebbero diventati soci fondatori del Partito democratico, vale la pena ricordare che nel documento firmato da Gabriele De Rosa e da Mino Martinazzoli per il Congresso fondativo del gennaio 1994 figurava espressamente la «separazione delle carriere del giudice e del Pubblico ministero».
Il tentativo di Alfano
Detto delle riforme Castelli e Mastella, che intervenivano sui passaggi di funzioni, un altro tentativo di separare le carriere, questa volta del solo centrodestra, è firmato da Angelino Alfano, ministro della Giustizia del quarto Governo Berlusconi. Era il 2011, la riforma costituzionale di Alfano prevedeva due Csm, carriere separate e una Corte disciplinare comune. Ma la crisi del debito sovrano travolse l’esecutivo e la riforma rimase lettera morta.
Da Cartabia a Nordio
Il resto è storia recentissima, riguarda i paletti posti al passaggio di funzioni dei magistrati dalla ministra Marta Cartabia (Governo Draghi), già presidente della Corte costituzionale, con la legge 71 del 2022 tuttora in vigore: i magistrati possono passare da giudice a pm o viceversa una sola volta nell’intera vita professionale ed entro 10 anni dalla prima assegnazione di incarico. Una separazione di fatto delle carriere senza toccare la Costituzione, sostiene chi si batte per il No al referendum sulla riforma Nordio.
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