In Friuli Venezia Giulia i migranti della rotta balcanica muoiono di freddo
di Paolo Lambruschi, inviato a Gorizia
Viaggio nei dormitori dopo la morte per il freddo di 4 migranti nei giorni scorsi tra Udine, Trieste e Pordenone. Le diocesi sono in prima fila e richiamano la politica ad affrontare quella che non è più un'emergenza

Inverno di morte sulla porta italiana della rotta balcanica. Quattro migranti senza dimora sono stati uccisi in pochi giorni dal freddo e dai veleni bruciati per riscaldarsi a Udine, Pordenone e Trieste in una sequenza tragica e inedita per il Friuli Venezia Giulia. E a Gorizia sono esauriti i posti letto per i richiedenti asilo. Le Chiese locali in prima fila nell’accoglienza richiamano politica e istituzioni a una gestione non emergenziale dopo 20 anni di arrivi.«Ho pagato 6mila dollari ai trafficanti, in Afghanistan ho lasciato moglie e due figli. Ho chiesto asilo in Italia, voglio trovare lavoro». Ahmed ha 27 anni, è arrivato “intero” a Gorizia dall’Afghanistan dopo due anni di viaggio passando dalla rotta balcanica. Le tappe dell’odissea, lo sfruttamento e le botte prese dai poliziotti balcanici ormai sono storie note. La novità è che lui e molti degli altri 76 richiedenti che dopo le 20 affollano il dormitorio del centro San Francesco della Caritas diocesana goriziana, non sono in transito. Rispetto agli anni in cui la Venezia Giulia era la porta di un corridoio diretto in nord Europa, oggi gli afghani chiedono appuntamento per presentare domanda di asilo. Così, sono esauriti i posti letto di accoglienza nel triangolo compreso tra Trieste, la piccola capitale europea della cultura e Gradisca che ha un Cara.
Al San Francesco ci sono materassi per terra e una sola doccia. Ma almeno è riscaldato. Per dare riparo a tutti nella sera piovosa e invernale, alcuni si spostano con i sacchi a pelo nella mensa del Pastor Angelicus, dove ogni sera le volontarie cucinano per chi in strada attende il colloquio con la polizia, spesso differito. Nel giro per i luoghi dell’accoglienza che effettuiamo con l’arcivescovo di Gorizia Carlo Roberto Maria Redaelli, presidente di Caritas italiana, e il neo vicario generale monsignor Paolo Zuttion, ex direttore della Caritas diocesana, diversi afghani mostrano i fogli su carta intestata con appuntamenti spostati anche di un mese a penna. Intanto devono arrangiarsi anche se dovrebbe scattare l’accoglienza.
«La diocesi - spiega Redaelli - ha scelto di non lasciare nessuno in strada affamato in inverno e abbiamo aperto questi spazi. Certo non vogliamo sostituirci alle istituzioni». Le strutture date in convenzione dalla diocesi alla prefettura e quella dei cappuccini offrono oggi 300 posti. Gorizia è piena. Cosa è successo? Che agli arrivi dalla rotta balcanica si sommano gli afghani respinti da Francia, Germania e Belgio nel primo paese Ue di ingresso che provano a chiedere asilo in Italia. Una novità preludio di una stretta della Ue. Un amico di Ahmed mi mostra un certificato medico che attesta le difficoltà respiratorie e dovrebbe dargli diritto di dormire al caldo mentre attende accoglienza. Ma Gorizia, che nei passaparola doveva essere più celere di Trieste nel dare gli appuntamenti, non è diversa. Molti si sono spostati a dormire nel capoluogo nei magazzini fatiscenti del Porto vecchio. Dei 155 richiedenti asilo sgomberati il 3 dicembre dalle forze dell’ordine e trasferiti in Toscana, quasi la metà erano in attesa a Gorizia, dove il pienone non è comunque finito. Al termine dello sgombero è stato scoperto il cadavere di Hichem Billal Magoura, algerino 32enne morto di freddo. Prima di lui, i corpi di due pachistani di 35 e 38 anni, Nabi Ahmad e Muhamnad Baig, noti alla Caritas, erano stati rinvenuti in un tugurio alla periferia di Udine. Poi Shirzai, 25enne afghano, richiedente in attesa di accoglienza, trovato morto a Pordenone.
La Chiesa prova a scuotere le coscienze, la diocesi, la Caritas di Trieste con la Comunità di Sant’Egidio hanno organizzato la sera del 4 dicembre una veglia di preghiera guidata dal vescovo Enrico Trevisi. E l’1 dicembre Caritas Trieste, Unhcr e l’associazione di medici volontari Donk hanno presentato i risultati dei primi 9 mesi di Spazio 11, finanziato dai fondi otto per mille della Cei, dalla Fondazione CrtTrieste e da Ikea Villesse, dal quale sono passate 5mila persone di 50 nazionalità. «I flussi migratori non sono un’emergenza - sostiene Trevisi – ma un dato che da anni caratterizza la nostra città di frontiera. Già abbiamo aperto un dormitorio notturno in via Sant’Anastasio per famiglie, bambini e donne che i sistemi di accoglienza non riescono ancora ad ospitare. Però il freddo, il disagio e i pericoli delle strade ci hanno portato a inventare una sala d’aspetto solidale aperta a chi non ha riparo. Siano essi italiani oppure stranieri di passaggio da Trieste o in attesa di essere accolti tramite i sistemi organizzati da Questura e Prefettura».
Il direttore della Caritas diocesana di Trieste, padre Giovanni La Manna, respinge da anni l’accostamento emergenza e immigrazione. «Serve una regia nazionale – afferma –. Chi chiede asilo dovrebbe entrare nel circuito di accoglienza. Poi ci sono diverse fatiche per accogliere le richieste perché in alcuni contesti le persone sono tante e chi dovrebbe espletare le pratiche è in numero ridotto. Ma se qui, porta della rotta balcanica, come a Lampedusa porta mediterranea, quando gli arrivi superano i posti scattassero i trasferimenti, i migranti non verrebbero abbandonati. Lo sgombero? Se portano i richiedenti in centri di accoglienza dignitosi è ovviamente meglio del degrado». Sottolinea infine l’opportunità di dare un’informazione corretta ai richiedenti protezione internazionale il rappresentante dell’Unhcr Matteo Valentinuz. «L’informativa legale e l’individuazione precoce delle vulnerabilità possono avvenire finalmente in un luogo accogliente e sicuro dove operatori e volontari hanno consolidato una coralità nella azione umanitaria». In una terra di confine dove muoiono di freddo quattro persone, questo segno di umanità restituisce speranza.
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