Grosso: «Ecco perché la riforma della giustizia smonta il Csm»

Parla il presidente del Comitato per il No al referendum promosso dall’Anm: «Ho accettato l’incarico perché voglio bene alla Costituzione»
December 7, 2025
Grosso: «Ecco perché la riforma della giustizia smonta il Csm»
Il professore Enrico Grosso, presidente del Comitato per il No al referendum sulla riforma della giustizia
Professore, ma questo confronto in tv col Guardasigilli Carlo Nordio si fa o no? «Non so, io sono a disposizione. Però ho l’impressione che sia lui a pretendere di non farlo con me, ma con un esponente dell’Anm. Eppure il Comitato serve proprio a questo...». Enrico Grosso, avvocato, figlio dell’insigne penalista Carlo Federico e allievo di Gustavo Zagrebelsky, è ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Torino. E da qualche mese, presiede il Comitato referendario del No, voluto dall’Associazione nazionale magistrati per informare i cittadini sulle ragioni della propria contrarietà alla riforma: «La riteniamo ingiustamente punitiva per la magistratura ordinaria e portata avanti unilateralmente dalla maggioranza di Governo, senza interloquire con le opposizioni e senza ascoltare i fondati rilievi degli esperti. Ricordo la mia audizione in Parlamento: il centrodestra non mi rivolse domande, mi parve che alcuni vivessero le audizioni come un fastidio necessario. Purtroppo, la possibilità di disporre di una maggioranza assoluta, data ai partiti dall’attuale legge elettorale, qui è stata brandita come una clava. I costituenti, quando congegnarono il meccanismo di revisione con l’articolo 138, non immaginavano che sarebbe finita così...».
Molti avvocati propendono per il Sì. Lei invece presiede il Comitato del No. Perché?
Voglio bene alla Costituzione, che fonda il suo equilibrio sull’architrave della separazione dei poteri. Ma è un equilibrio fragile: se si smuove una pietra angolare, rischia di venire giù l’edificio. Il potere politico va limitato attraverso idonei contropoteri, come la magistratura, che difende i cittadini applicando il diritto. Ma ad ascoltare ministri e sottosegretari, l’impressione è che l’obiettivo stavolta sia proprio il ridisegno dei rapporti tra politica e magistratura, per permettere a chi governa di svincolarsi di quel necessario contro bilanciamento.
Ma l’obiettivo proclamato è la separazione assoluta fra le carriere di giudici e pm...
Quella è un’arma di distrazione di massa per far passare una riforma che non affronta in alcun modo i veri mali della giustizia, come la lentezza dei processi o il sovraffollamento carcerario. Con la legge Cartabia, i cambi di funzioni sono già ridotti a uno solo. Se si voleva la separazione assoluta, bastava una legge ordinaria. Invece la modifica della Carta “smonta” il Csm, duplicandolo e indebolendone la funzione di difesa dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura.
Con quale meccanismo?
Col Divide et impera. La riforma duplica il Csm: uno per i giudici e uno per i pm. Ora, supponiamo che su una proposta di incompatibilità ambientale che riguardi sia un giudice che un pm della stessa città, i due Csm assumano decisioni contrastanti, mettendo tra l’altro in imbarazzo il presidente della Repubblica, che li presiederebbe entrambi. Oppure che inviino al Parlamento pareri discordanti su un medesimo progetto di legge... Situazioni che, è evidente, indebolirebbero e relativizzerebbero la funzione del Consiglio superiore. Poi c’è la seconda mossa, umiliante e punitiva.
Si riferisce al sorteggio? Il centrodestra lo sbandiera come argine al correntismo nella magistratura.
Altro elemento di distrazione. Perché certa politica, che tanto lamenta la “politicizzazione” delle toghe, non guarda in casa sua? Un tempo, in linea con la volontà dei costituenti, il Parlamento sceglieva i laici del Csm fra fior di giuristi, equanimi e indipendenti. Poi, l’approccio è cambiato.
Cioè?
Faccio un esempio: Isabella Bertolini, consigliera laica del Csm, si è recata a una riunione politica nella sede di Fratelli d’Italia, per organizzare la campagna referendaria per il Sì. Un’azione molto inopportuna, che però non altera troppo l’equilibrio tra poteri dello Stato perché i togati, eletti dai magistrati, fanno da contrappeso. Ma, se la riforma Nordio passasse, i laici estratti da un elenco di nomi scritto dal Parlamento sarebbero più influenti, mentre i magistrati, sorteggiati a caso fra tutte le toghe, più deboli e privi di legittimazione interna. Il caso Bertolini è un campanello d’allarme: oggi è una sgrammaticatura istituzionale, domani sarebbe normalità. In più il sorteggio “puro” penalizza la magistratura ordinaria rispetto alle altre categorie professionali, tanto che autorevoli costituzionalisti auspicano che finirà sotto il maglio della Consulta. Infine, c’è il terzo ramo dell’albero riformatore.
L’Alta Corte disciplinare.
Già. Da sempre, ogni categoria professionale è titolare della propria giustizia deontologica. Le altre magistrature (amministrativa, contabile, militare) hanno propri organi disciplinari. Perché solo quella ordinaria dovrebbe essere giudicata da un organo “esterno”, in cui, peraltro, tornerebbero per incanto a convivere giudici e procuratori, che si proclama di voler separare? E c’è un’incredibile forzatura costituzionale: secondo l’articolo 111 della Carta, ogni cittadino ha diritto di impugnare le sentenze davanti alla Cassazione per violazione di legge. Le toghe ordinarie invece potrebbero impugnare le sentenze dell’Alta Corte solo davanti alla Corte stessa, in diversa composizione. Un clamoroso vulnus allo stato di diritto, per me passibile di condanna all’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Per l’Anm, dopo la riforma, i pm cadranno sotto l’influenza del Governo. Lei cosa ne pensa?
Non so. La riforma non lo dice. E forse, per farlo, servirebbe una riforma della riforma. Tuttavia, viene disegnato un pm autoreferenziale, a rischio di divenire iperautonomo e iperpotente, perché privato del sano confronto dialettico ed esperienziale con chi giudica. Non credo che un tale iperpotere senza controllo sarà a lungo tollerato dalla politica.
L’orizzonte del voto è a inizio marzo. Ma c’è chi ipotizza di anticiparlo a gennaio. Sarebbe possibile?
No, dall’approvazione definitiva della legge debbono passare 3 mesi, concessi a chiunque intenda promuovere un referendum costituzionale. Si arriva al 30 gennaio, più altri 50 giorni obbligatori fra indizione e voto. Ossia, minimo al 23 marzo. Forse la maggioranza ha sondaggi secondo cui, più dura la campagna referendaria, più i cittadini comprendono la posta in palio e possono votare No. Noi ne siamo convinti: se si comprende la questione e si ha a cuore l’equilibrio fra poteri scolpito nella Costituzione, diventa naturale, e saggio, scegliere il No. Ed è ciò che spiegheremo agli italiani, fino all’ultimo giorno utile prima del voto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA