Le etichette trasparenti fanno bene al nostro riso
domenica 3 marzo 2019
Le etichette trasparenti fanno bene al riso italiano. Questione di mercato e di consumo, ma soprattutto questione di trasparenza e quindi di informazione. Ad affermarlo è stata la Coldiretti che ha analizzato l'andamento delle quotazioni del prodotto in un anno, sulla base delle rilevazioni delle Borse merci italiane. Un anno fa, infatti, è entrato in vigore l'obbligo di indicare in etichetta l'origine del riso. È stata quella – stando ai produttori –, la spinta che ha fatto scattare la corsa al rialzo dei prezzi all'origine dei chicchi nostrani. E che rialzo. Secondo lo studio della Coldiretti, le quotazioni nell'arco di dodici mesi sono aumentate del 70% per la varietà Arborio che ha raggiunto i 520 euro a tonnellata, mentre per il Selenio l'incremento è stato addirittura del 75% con 490 euro a tonnellata. Variazioni positive anche per tutti gli altri risi Made in Italy: dal Roma +54% al Sant'Andrea +49%, dal Carnaroli + 55% al Vialone Nano +32% fino al Lungo B +20%. Tutto, come si è detto, perché dal febbraio 2018, sulle etichette delle partite commercializzate in Italia, è obbligatorio indicare da dove proviene la materia prima. Da lì il cambio dalla notte al giorno: da una situazione di «grave rischio per la sopravvivenza della coltura in Italia», dice Coldiretti, si è passati a tassi di crescita a due cifre dell'oggi.
«L'assenza dell'indicazione chiara dell'origine – precisa la Coldiretti – non consentiva di conoscere un elemento di scelta determinante per le caratteristiche qualitative ed impediva anche ai consumatori di sostenere le realtà produttive nazionali e con esse il lavoro e l'economia del territorio».
Ma sembra vi sia anche dell'altro. Almeno stando sempre ai produttori. Alla valorizzazione della produzione nazionale avrebbe infatti contributo, dice sempre l'organizzazione agricola, «anche lo stop all'invasione di riso asiatico nell'Unione Europea che da metà gennaio 2019 ha messo finalmente i dazi sulle importazioni provenienti dalla Cambogia e dalla Birmania (ex Myamar) che fanno concorrenza sleale ai produttori italiani».
La morale della vicenda appare piuttosto semplice. Qualità e correttezza del prodotto non bastano più, soprattutto in mercati
sempre più complessi e non sempre corretti come quelli agroalimentari. Occorre anche una trasparenza dell'informazione che deve però arrivare fino al fruitore finale del prodotto. Cosa non facile da fare, ma ormai obbligatoria soprattutto quando si parla di alimenti.
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