domenica 4 marzo 2018
Tâ si affrettò a dedicare un nuovo inno a ciascuna delle sue cinque mogli. Erano, a volergli credere, cinque dee, e se nella sua casa sembravano domestiche, era a causa dell'estrema condiscendenza che le aveva spinte a lasciare i cieli immortali per soccorrere quei poveri terrestri che eravamo. Questo le rendeva ancora più adorabili. Mentre esse si affaccendavano alla cucina, andando e venendo per prepararci una pietanza agrodolce carica di spezie, Tâ celebrava il loro fascino indescrivibile, componendo motti per tale o talaltra parte del loro corpo. Una aveva seni che erano la «vera bilancia della giustizia», i «cardini della gravità e della grazia», le «borracce che dissetano i mondi». L'altra aveva labbra corrispondenti alle «porte della beatitudine», al «fiore rosso che muta l'inferno in Eden», e anche, sebbene la licenza di tale metafora fu causa di malintesi, agli «sfinteri dell'assoluto». Un'altra aveva ciglia «affilate come artigli che lacerano il cuore» la cui «perfetta curvatura apre lo spazio di un'ospitalità senza riserve». Talvolta, con un gesto silenzioso ma energico, Tâ dava ordini affinché le sue dee accelerassero il servizio, ma era solo un'ombra passeggera, presto dissipata dalle folgorazioni dell'adorazione. Le prime tre donne celebrate dovevano avere circa 16, 25 e 35 anni. Le altre due avevano superato la quarantina e si trattava ora di cantarne la virtù più che la bellezza. La più vecchia era evidentemente l'allegoria di una fedeltà «più sicura del suolo sotto i piedi, più discreta e vivificante che l'aria che si respira». La compagna di quarantacinque anni era invece adulata specialmente per il vigore delle sue braccia. Era «la mano diligente e forte che salva dall'annegamento» e «la lavoratrice divina che saprebbe ricostruire il focolare in tre giorni». Fratel Ugo cominciava a farsi un'idea del lirismo del nostro ospite. Attendeva una sua pausa per interrogarlo. Ma questa pausa non veniva mai. Anche quando la sua bocca era imbavagliata dalla manducazione del pasto, Tâ non si fermava: il canto lasciava posto alla danza, le sue braccia formavano ideogrammi, il torso e la testa si torcevano in sensi opposti… Ugo finì per abbandonare il timore di sembrare scortese. L'apostrofò nel mezzo di uno dei suoi arabeschi: «Avete figli?». Brusco fermo-immagine. Espressione di Tâ non imbarazzata né colpevole, soltanto vuota, come quella di un attore che ha un buco nel mezzo di una scena madre. Ma il nostro attore riannodò subito il filo rotto del suo bel ruolo. Si mise a cantare con tremoli «il dono inaudito della vita dal ventre abissale delle dee», «l'avvenimento verticale di una nascita che rinnova l'orizzonte» e «il padre abbagliato pronto a morire per questo infinito vulnerabile». Riuscimmo a capire tra le sue tirate che aveva una ventina di figli, aveva composto per ciascuno di loro un nome incomparabile di più di 300 sillabe oltre a odi, elegie ed epopee, e quella era la nobile ragione che non gli lasciava il tempo di averli tra i piedi. I ragazzi erano convittori all'Istituto di formazione dei poeti, le ragazze, all'Alta scuola delle domestiche celesti.
- Ma vedo e mi rendo conto, modulò Tâ verso di me, che i tuoi occhi attraverso cui passa il tuo sguardo che mi guarda sono segnati e sottolineati da una pesante e grave stanchezza che ti prostra e ti piega. Lasciami e permettimi di accompagnarti e condurti a un letto lettoso su cui potrai e avrai la possibilità di riposare e abbandonarti al sonno più assonnato in mezzo ai fiori fiorenti del mulornoukilam… [circa 70 sillabe]. Mi portò attraverso una passerella su un albero vicino dove un divano mi aspettava tra vasi di fiori malva e oro. Il loro profumo solleticò le mie narici. Il mio corpo si distese subito. Tuttavia, prima di sprofondare nel sonno, Tâ non poté trattenersi dal gorgheggiare ancora una lunga serie di stanze sulle mie fattezze, «tasche riempite dei meriti del dovere compiuto», «incarnazione violacea della sollecitudine» e, più curiosamente, «carne affumicata che gustano gli angeli del buon consiglio». Fratel Ugo era restato tra le sue donne. Avevo troppa voglia di dormire per preoccuparmene. L'indomani, Tâ ci fece incontrare numerosi dei suoi compaesani. Non tutti si dedicavano alla poesia in senso stretto. Certuni giocavano a giochi di 5040 carte le cui regole, già complesse, cambiavano durante la partita. Capitava loro, nella foga di un rilancio, di puntare una moglie e di perderla - cosa che questa accettava di buon grado, provando così che era una dea. Altri Gracidi, ce n'eravamo accorti fin dai nostri primi passi nel loro Paese, scolpivano e pettinavano tutto ciò che capitava tra le loro mani, per dotarlo di un'apparenza inattesa: la pietra doveva somigliare al vivente, la pianta al minerale; gli animali - capre, cani, maiali - erano sistematicamente decorati con motivi cachemire, come da noi i calzini o i foulard. C'erano certamente i costruttori di labirinti. La loro passione era di trovare la quadratura del girare in tondo. Alcune loro invenzioni ricordavano certi dispositivi dei centri di fitness grazie ai quali il più grande dispendio di energia ha come solo risultato il surplace. Con una differenza: qui si mirava alla forma estetica, non alla forma fisica. C'erano anche fabbricanti di attrezzi sempre più innovativi e perfezionati nell'inutilità. Uno di essi ci presentò i suoi martelli di vetro per inchiodare i raggi del sole. Un altro era molto fiero dei suoi recipienti bucati per prendere una scodella d'aria a due mani. Un terzo ci mostrò quanto le sue vanghe col manico ricurvo rendessero impossibile il lavoro della terra. Che un poeta potesse realizzarsi come meccanico, non l'avevo immaginato prima di vedere le loro macchine: arnesi estremamente sofisticati, composti da innumerevoli ingranaggi, dischi, bielle, pistoni, che funzionavano con grande fragore e non servivano generalmente a nient'altro che agitare alla loro estremità una piccola bandiera bianca, più faticosamente di un atassico. Vedemmo così un'enorme locomotiva immobile, che bisognava alimentare senza tregua con grossi ceppi e che non aveva altra funzione che produrre nuvole di vapore. Se il suo costruttore fosse riuscito a produrre delle apparizioni della Madonna a comando non sarebbe stato altrettanto entusiasta. Ciò che avevo immaginato ancora meno, era che un poeta potesse realizzarsi in quanto assassino. È vero che l'omicidio può essere gratuito. Questa categoria di Gracidi lo concepiva con lentezza, secondo torture raffinatissime. Ma raramente si passava all'atto. Lo scopo era di rimettere in riga le dee. Non doveva succedere che fossero tentate dalla rivolta come volgari schiave. Dovevano restare quegli angeli disinteressati, quelle splendide misericordiose destinate a essere la provvidenza degli uomini ingrati.
(26, continua. Traduzione di Ugo Moschella)
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