giovedì 29 luglio 2021
Il lavoro in carcere dovrebbe rappresentare uno dei pilastri della rieducazione dei condannati, ma anche un investimento sulla sicurezza del Paese: penso al problema della recidiva, che tra chi sconta la pena in cella è altissima, intorno al 70%. Insomma, il lavoro dei detenuti è un'assicurazione sul futuro di tutti. Ma oggi è visto come una concessione o un favore. Sono pochissimi, il 5 o 6%, i reclusi che fanno un lavoro vero, con formazione, contratto e stipendio. Un giovane detenuto mi ha confidato :«Non c'è niente di più responsabilizzante. Se vedo che con le mie mani produco qualcosa, quando esco potrò camminare con le mie gambe». Alcuni sono assunti da imprese e cooperative. Ma la maggior parte svolge attività alle dipendenze dell'Amministrazione penitenziaria: addetti alle pulizie, alla lavanderia e alla cucina, cuochi e manutentori. Mestieri senza formazione e difficilmente spendibili fuori dalle mura del penitenziario, svolti per poche ore al giorno, alcuni neppure per tutto l'anno. Con stipendi bassi, un terzo in meno rispetto al contratto nazionale di riferimento, a cui poi bisogna togliere le spese di mantenimento. Poco più di un sussidio. È un modo per tenere calmi i detenuti, che con quei soldi possono comprarsi cibo o sigarette. Eppure il lavoro "vero" potrebbe migliorare le condizioni nelle carceri. Ma la politica nostrana preferisce l'emotività, la risposta seccamente punitiva viene fatta passare come quella più soddisfacente. E, a lungo andare, è disastrosa. Oggi ci sono persone in carcere per pene brevi e ripetute: gente che entra ed esce. Lo Stato, invece, dovrebbe investire affinché le persone non tornino in prigione. Spesso, tra l'altro, il lavoro rappresenta anche la possibilità di mandare soldi alle famiglie e riduce il rischio di esposizione alla criminalità. Non parlo di misure assistenziali, ma di attività che stanno sul mercato: formazione professionale con tirocinio pagato, poi l'assunzione in base al contratto collettivo di categoria. Se si tratta di persone da reinserire nella società, allora devono essere "allenate" a farlo. È vero, ad aziende e cooperative sociali che decidono di varcare le soglie dei penitenziari, lo Stato concede incentivi fiscali e previdenziali. Tuttavia la vita degli imprenditori dietro le sbarre procede tra mille ostacoli. Tutto è assorbito dalla burocrazia. Le imprese, alla stregua dei detenuti, devono fare una "domandina" all'Amministrazione penitenziaria per ogni cosa che intendono fare. L'organizzazione carceraria è rigida per definizione: di fatto, la giornata carceraria finisce alle 15.30. Ma un imprenditore che investe non può stare a questo tipo di logica. Le norme non bastano, servono persone che le applichino con intelligenza per dare una speranza a chi è dentro. Conosco detenuti che lavoravano e che, una volta usciti, hanno trovato un'occupazione o creato imprese. Persone che dopo un lungo percorso sono cambiate.

Padre Stimmatino,
cappellano Casa circondariale maschile "Nuovo Complesso" di Rebibbia
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