giovedì 1 maggio 2003
Una volta in Inghilterra la condanna ai lavori forzati veniva applicata appendendo il condannato al di disopra di una ruota azionata a forza d'acqua, obbligando così la vittima a muovere in un certo ritmo le gambe che altrimenti gli sarebbero state sfracellate. Quando si lavora si ha sempre il senso di una costrizione di quel genere. A partire dal celebre monito divino di Genesi 3, 19 - «Col sudore della tua fronte mangerai il pane» - c'è nella storia dell'umanità un filo nero costante che percorre la concezione del lavoro. Nel famoso Natale in casa Cupiello (1931) Eduardo De Filippo propone, al riguardo, una battuta esilarante: «Che brutto suonno mi so' fatto stanotte. Mi sono sognato che lavoravo»! È ciò che ripete in forma meno ironica ma più aspra Italo Svevo nel brano del suo capolavoro La coscienza di Zeno (1923) che ho voluto proporre nella festa dei lavoratori. C'è nel lavoro, così come è concepito e attuato nella società, una sorta di costrizione; ogni attività manuale o professionale, inquadrata nel meccanismo economico-sociale, ha sempre qualcosa di forzato. È per questo che "lavorare stanca", come dice il titolo di una poesia e di una raccolta di versi di Cesare Pavese (1936). Stanca non solo fisicamente ma anche spiritualmente. Purtroppo molti possono sottoscrivere questo motto, anche perché sono entrati in un lavoro senza possibilità di scelta, ma solo per sopravvivere. Pochi sono quelli che esercitano un mestiere potendo far esplodere la loro creatività e, quindi, trovandosi a loro agio. Eppure c'è un dramma peggiore del quale siamo consapevoli soprattutto in questo tempo: è la mancanza di lavoro che è una costrizione ben più grave perché riduce alla miseria, all'inerzia, all'insoddisfazione e persino alla disperazione.
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