domenica 23 ottobre 2011
Il ricordo si materializza improvviso come stessi visionando un vecchio spezzone di cinema: immagini sconnesse, sgranate poi via via nitide e arriva il sonoro: un sommesso brusio di corpi, voci basse, tonalità infantili, rumori di seggiole spostate, scricchiolii di vecchie poltroncine; lo scalpiccio da branco di bambini che abbandona, sotto lo sguardo di educatori vigili, un piccolo teatro. So dove siamo e quando: Reggio Emilia, 1960. La scena è a colori, colori spenti da abbigliamento d’altri tempi: grigio, marrone, blu, verde scuro, con macchie di nero lucido: tonache e lunghi abiti di preti e suore. È la recita del Santo Natale del Pio Istituto Artigianelli di cui sono allievo, seconda elementare. C’è mia madre, ha lo stesso cappotto che le ho visto addosso fino a che è andata in pensione e l’abbiamo costretta a comprarne uno nuovo. Ha l’aria triste, stanca come sempre, ma deve preoccuparsi per una famiglia di 4 persone che dipendono, in tutto, da Lei; è una giovane vedova. C’è suor Aurelia Strozzi, Madre Superiora del collegio di Roncolo dove vivono i settanta allievi che frequentano le elementari, è raggiante e mi tiene per mano: sono una sua scoperta; è Lei che ha deciso di assegnarmi il ruolo di solista, nel coro dei bimbi, e stasera è il mio debutto. Sembra sia andato tutto bene. Non posso dire di essere contento, cantare non è un mio interesse, ogni mia gioia è tutt’altra cosa ed ha a che fare con animali e montagne, ma mi è stato chiesto di studiare, imparare, obbedire ai Superiori, e lo farò; l’ho promesso a mia nonna, sconsolata quanto me, nel nostro distacco. È una serata speciale, vigilia delle vacanze natalizie che, dopo un trimestre di collegio, mi riporteranno a casa: questo sì è eccitante; cantare è un leggero inconveniente, non vale lamentarsi visto che tutti sono contenti. Mia madre sta parlando con don Gianfranco Magnani, direttore dell’Istituto; un’aura autorevole, una pacatezza che incute timore; è compiaciuto e passando con lo sguardo da mia madre alla Madre Superiora a me sentenzia: «Male che vada ne faremo un cantante». Sorride, e sorride Suor Aurelia. Mia madre è perplessa ha ben altri progetti e io? Non devo mica fare il cantante, ci mancherebbe, mi fa senso il solo pensarlo. Senza che aumentasse di un grammo il mio interesse, senza alcun rifiuto manifesto, ho cantato negli anni della scuola elementare assecondando ogni richiesta. Arrivò un vecchio gentile maestro di violino, preparammo il Te Deum per una solenne celebrazione di monsignor Beniamino Socche in Duomo; ho conservato fino all’adolescenza, appeso in camera, un attestato in pergamena che mi qualificava: araldo del vescovo. Costretti, io e il maestro, a una selezione dello Zecchino d’oro assistemmo a una surreale discussione tra la Madre Superiora, che pretendeva io cantassi un’Ave Maria, e uno stralunato mago Zurlì che non riuscendo a contenerla cercava di blandire me invitandomi a cantare canzoni di successo che non conoscevo, non avevo mai sentito. Poi tutto finì. Ricominciai a Berlino ma è tutt’altra storia, di pubblico dominio, e l’ho scelta io. «È andata male», anch’io sorrido, ora. Ricordare e pensare sono un unico verbo in diverse lingue e c’è un’età, nella vita di ogni uomo, in cui pensare è ricordare; altro è la giovinezza, la scoperta. Non so parlare di musica e rifuggo le domande che troppo spesso mi vengono fatte in proposito. Ho ripreso in mano il Qohélet nelle due versioni di Guido Ceronetti. 1970: Un infinito vuoto. Un infinito niente. Tutto è vuoto niente. 2001: Fumo di fumi. Tutto non è che fumo. Sono tornato alla versione C.E.I., combacia con la versione ebraica di Rav Dario Disegni ed è la stessa che con timore riverente ascoltai, la prima volta, bambino: Vanità delle vanità, tutto è vanità. Ciò che salvo dei miei anni è riducibile a un operoso meditare il mistero della vita, la condizione umana, ma servirà un’Infinita Misericordia, nel giorno del giudizio, per salvarne l’equivalente di un granello di polvere.
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